Il “Martirio di Sant’Orsola” è considerato dalla critica l’ultimo quadro di Caravaggio. È conservato a Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli e ora è in prestito a Milano, a Palazzo Reale, per la mostra “Dentro Caravaggio” (fino al 28 gennaio). Lo stile non lascia dubbi sul periodo cronologico in cui collocarlo. L’oscurità sembra essere diventata la protagonista assoluta e i personaggi sono quasi “mangiati” dal buio. Questo cambiamento stilistico è evidente subito dopo la fuga del Merisi da Roma, a causa dell’uccisione di Ranuccio Tommasoni. A Palestrina o Paliano (dove si rifugia per un periodo limitato di tempo), dipinse la “Cena in Emmaus” (una seconda versione; la prima per i Mattei è a Londra) e si nota un’inscurimento della tavolozza. Da qui in poi non si tornerà più indietro e le tenebre diventeranno sempre più marcate. Si approda così a questo tela, raffigurante il “Martirio di Sant’Orsola”. C’è chi l’ha paragonata allo stile di Rembrandt, e non ha tutti i torti.
Da chi venne commissionata? Dal nobile genovese Marcantonio Doria, tramite il suo agente a Napoli, Lanfranco Massa, che lo ha avuto nei primi giorni del maggio 1610. Ne parla proprio in alcune lettere, che sono state riportate alla luce nel fondo Doria d’Angri dell’Archivio di Stato di Napoli. Grazie ad esse si è riusciti a certificare in maniera assoluta la paternità dell’opera a Caravaggio. Da queste lettere veniamo a conoscenza di come Massa, appena ricevuto il quadro per poi poterlo spedire a Genova, si sia trovato in difficoltà sulla sua conservazione. Chiede infatti come poter asciugare in fretta la vernice e come poterlo mantenere al meglio per non guastarlo. Questo dato non è da trascurare, perché permette di capire il modo di operare del pittore. Il fatto che la vernice non si asciugasse in tempi brevi, potrebbe far ipotizzare l’uso di una molto densa, composta da olio di lino e sandracca, oppure si potrebbe anche ritenere che ne abbia usato uno strato molto spesso, se non anche più di uno. Dieci anni dopo (nel 1620), l’opera del Merisi si trova inventariata nella residenza di Doria a Genova con il titolo “Sant’Orsola confitta dal tiranno”. Nella città ligure il dipinto rimase fino al 1832, poi passerà al ramo napoletano della famiglia per giungere ai baroni Avezzana dai quali fu acquistata dalla Banca Commerciale italiana nel 1972, anche se si credeva opera di Mattia Preti. Anche nell’Ottocento, quando la tela arrivò a Napoli, ci furono problemi conservativi. Infatti, a seguito di un restauro, la vernice non venne fatta asciugare bene e si attaccò all’imballaggio.
Ma cosa narra la storia di sant’Orsola? La ragazza era la figlia di un sovrano bretone, che si era consacrata a Dio senza farne parola con nessuno. Venne però chiesta in sposa dal principe pagano Ereo. Orsola, che non voleva venire meno alla sua vocazione, chiese consiglio ad un angelo. Quest’ultimo le disse di chiedere di rimandare la decisione di tre anni, in modo che si potesse rendere davvero conto di quello che provava e sperare in una conversione dell’ipotetico marito. Scaduto il tempo, Orsola, sempre guidata dall’angelo, prende la via del mare con undicimila compagne vergini e il futuro sposo. Dopo numerose tappe approda a Roma e qui incontra papa Ciriaco che stava tornando nella sua patria, Colonia, conquistata dal re unno Attila. Arrivate a Colonia, le sue compagne vennero uccise in solo giorno. Solo Orsola si salvò perché il re si invaghì della sua bellezza. Quando però la chiese in sposa e lei si rifiutò, la fece uccidere a colpi di freccia.
Caravaggio rappresenta proprio questo ultimo momento: Orsola è stata colpita da una freccia sul petto dal re Attila, irato per essere stato rifiutato. Delle vergini nessuna traccia. Si intravedono solo altri tre personaggi, tra cui molto probabilmente un autoritratto di Caravaggio, testimone dell’accaduto. Ricorda molto il quadro “La Cattura di Cristo” (a Dublino alla National Gallery), anche per il soldato che si trova all’estremità del quadro (presente anche lui nel dipinto di Dublino). La scena è stata quindi concentrata al culmine della storia. Tutto il resto non conta e per questo lo sfondo sembra risucchiare ogni cosa.
Alcuni restauri hanno portato alla luce dei fatti interessanti. Prima di tutto si rivelarono alcune scritte sul retro della tela originale, ossia la data 1616 (forse anno del primo inventario) e le lettere “M.A.D.” iniziali del committente Marcantonio Doria, probabilmente inserite dopo la sua morte, a causa di una croce funeraria posta accanto.
Da notare un’ultima cosa. Sembra accertato che Marcantonio Doria abbia scelto il soggetto del martirio di Sant’Orsola per l’amore nei confronti di una figliastra, Livia Grimaldi, che si era fatta suora nel monastero napoletano della Trinità delle monache, propria prendendo il nome di Orsola. Il fatto è testimoniato da alcune lettere rimaste e dalla presenza delle armature moderne indossate dal re unno Attila. Caravaggio ha sicuramente voluto ambientare la scena nella contemporaneità.