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Emozione Arte

Caravaggio e l'uso della ''camera oscura''


Le opere di Caravaggio sono famose in tutto il mondo per lo straordinario utilizzo della luce e delle ombre. Scene che sembrano uscite da un set cinematografico, dove ogni personaggio assume una posizione chiave all’interno della composizione. Da sempre ci si interroga sulle possibili tecniche usate. In che modo riusciva a realizzare questi magnifici capolavori? Molto interessante è la teoria della studiosa Roberta Lapucci, professoressa all’Università di Firenze, che nel 1994 parlò di “camera oscura”. Ebbene sì, le camere oscure utilizzate dai fiamminghi e dagli artisti veneti come il Canaletto nel Settecento inoltrato. Si iniziò a parlare di camera oscura già al tempo di Aristotele, nel IV secolo a.C. Verrà studiata e sperimentata anche nel mondo arabo e ne parlò poi Leonardo da Vinci nel suo “Codice Atlantico” nel 1515. La descrisse in modo molto dettagliato come un modo per disegnare paesaggi dal vero. Il procedimento non era complesso. Si costruiva una camera buia dentro la quale veniva fatto un foro. Su di esso si apponeva una lente che poteva essere regolata e così, sulla parete opposta, si proiettava l’immagine uguale e capovolta che poteva poi essere copiata su qualsiasi supporto. Leonardo ipotizzò che il meccanismo della camera oscura fosse lo stesso dei nostri occhi.


Caravaggio è sicuramente venuto a conoscenza della camera oscura durante il suo soggiorno presso il cardinale Del Monte a Roma. Essendo quest’ultimo una persona molto colta, che amava circondarsi delle persone più influenti del tempo a livello intellettuale, avrà posseduto sicuramente questo strumento innovativo per l’epoca, oltre che molto costoso. E la cosa non stupisce, visto che il Del Monte aveva contatti con Galileo Galilei e Guidobaldo da Montefeltro.

La teoria è davvero interessante e potrebbe chiarire una volta per tutte il modo di operare del Merisi. Prima di tutto dobbiamo sottolineare che la camera oscura al tempo di Caravaggio non era ancora molto sviluppata, al contrario la potremmo definire rudimentale, molto grande e con lo svantaggio della riproduzione di immagini scure e poco definite. Questo significava difficoltà per il pittore a riportare bene i contorni delle figure e potrebbe spiegare le imprecisioni evidenti delle prime opere romane. Ma i motivi potrebbero non essere solo questi. Secondo alcuni studi, Caravaggio avrebbe fatto realizzare un buco nel soffitto del suo studio (operazione che nel 1605 gli costerà la citazione in giudizio della padrona di casa) per far filtrare la luce grazie ad una lente biconvessa e a uno specchio concavo con cui rifletteva sulla tela le immagini. Ma, come detto prima, la camera oscura di allora aveva la pecca di proiettare immagine molto buie, con la conseguente difficoltà della minima visibilità dei contorni sulla tela e ancora più scomodo era dover spostare sempre il soggetto (o i soggetti) dei suoi dipinti (ricordiamo che Caravaggio usava persone vere come modelli). Infatti la luce cambiava irrimediabilmente durante l’arco della giornata e questo lo obbligava a cambiare spesso il punto di vista e la messa a fuoco, con conseguenti errori nella prospettiva. Ma come riusciva a dipingere sulla tela nonostante il buio? Tramite studi diagnostici sono state scoperte sui supporti (tavole o tele) tracce di sali mercurio (uniti alla biacca), una sostanza fluorescente che permetteva al pittore di tracciare i contorni delle figure. L’ipotesi è davvero straordinaria! E non è assolutamente fantasiosa. Quasi sicuramente Caravaggio aveva letto l’opera di Giacomo Dalla Porta “Naturalis Magiae” pubblicata nel 1558. Il Della Porta si interrogava su come dipingere un’immagine anche al buio. Bisognava preparare una “ricetta” con lucciole distillate e seccate dalle quali si sarebbe formata una polvere “magica”. Purtroppo è oggi impossibile ritrovare sui supporti usati dal Merisi tracce organiche di questi piccoli animali luminosi, data la loro biodegradabilità. Quindi non possiamo essere certi che Caravaggio ne avesse fatto uso. La cosa certa è però l’uso di sostanze fotosensibili. Quindi il passo del “Naturalis Magiae” è stato sicuramente letto e studiato.



Usando la camera ottica, Caravaggio è andato però incontro a problemi “prospettici”. Dove si possono ravvisare? Secondo la studiosa Lapucci, la prima opera dove Caravaggio ha usato lenti e specchi è il “Bacco” degli Uffizi. Il Bacco è infatti mancino, tiene il bicchiere di vino con la mano sinistra e sembra essere stato il primo esempio in cui si sperimentava una cosa del genere. È sicuramente una proiezione ribaltata di un’immagine tramite camera oscura o specchi. Infatti se ruotiamo il Bacco di 180°, vediamo una posa più naturale. Anche per quanto riguarda il “Ragazzo morso da un ramarro” la studiosa ha effettuato un esperimento. Ha diviso a metà il volto del ragazzo e allontanando le due parti è risultato evidente come il ritratto non sia altro che lo studio di due momenti di posa diversi. E su questo punto torniamo al discorso precedente. La luce che filtrava dal foro sul soffitto cambiava nel corso della giornata e obbligava il pittore a spostare il soggetto.

L’affermazione di Baglione, nella sua biografia sul pittore lombardo: “quadretti da lui nello specchio ritratti”, non deve quindi essere interpretata come “autoritratti”. Al contrario testimonierebbe l’uso di lenti e specchi per dipingere e confermerebbe ulteriormente la tesi della Lapucci.

Altri evidenti errori si notano nella ”Cena in Emmaus” di Londra. Infatti anche in questo caso, Caravaggio ha dovuto dipingere più particolari in vari momenti della giornata, con diverse messe a fuoco. Il risultato è stata una sproporzione delle mani di due uomini e nella dimensione della frutta.


Non tutti i critici però sono d’accordo con la tesi della Lapucci. Lo studioso David G. Stork è alquanto dubbioso sull’uso della camera oscura e di lenti per realizzare i quadri. Per lui sarebbe stato solo un grande dispendio di energia inutile, perché obbligava ampie interruzioni del lavoro. Dovendo infatti sempre spostare le lenti per illuminare i soggetti, Caravaggio si sarebbe dovuto fermare tante volte nell’arco di una giornata e spesse volte rimandare il lavoro anche nei giorni successivi. Bastava infatti una giornata nuvolosa o piovosa per rimandare il lavoro, perché la luce sarebbe irrimediabilmente risultata più cupa.

Quando Caravaggio fuggì da Roma in seguito all’omicidio di Ranuccio Tomassoni, si stabilì a Napoli per poi arrivare in Sicilia (oltre che a Malta). È molto probabile che non ricreò una camera oscura e nemmeno usasse degli specchi (essendo troppo costosi). Si è così ipotizzato l’uso di tracciati precedenti, presi dalle opere giovanili. Forse erano conservati su una carta oleata e venivano riflessi sula tela o sulla tavola con uno specchio piano. Nonostante non siano state trovate tracce di questi “cartoni preparatori”, non è assolutamente da escludere come tesi. Infatti sono stati identificati dei personaggi già usati nei quadri precedenti. Un esempio è il ritratto di Alof de Wignacourt, il cui modello si ritrova anche nella “Decollazione del Battista”.

Caravaggio quindi trasformò il studio a Roma in una grande camera oscura. Faceva uso già di tecniche che potrebbero essere invidiate dai tecnici del cinema o del teatro. Con il passare del tempo, riuscì comunque a perfezionare l’uso delle lenti e studiò meglio la resa della profondità e dello spazio.

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