Il “San Gerolamo” di Leonardo da Vinci (conservato nella Pinacoteca Vaticana) è una delle opere non finite realizzate dall’artista. È infatti molto simile alla tavola dell’”Adorazione dei Magi” degli Uffizi restaurata da pochissimo tempo. Non abbiamo molte notizie su di essa (come d’altronde per la maggior parte dei dipinti di Leonardo) e le poche sono dubbie. Intanto, da chi venne commissionata? Non sono rimasti documenti che lo possano sostenere. Alcuni critici ritengono che la destinazione originaria fosse la cappella Ferranti della Badia Fiorentina, per cui Filippino Lippi, nel 1489-90, realizzò una pala con lo stesso soggetto. E non è la prima volta che Lippi dipingeva tavole per sostituire quelle che Leonardo non aveva completato (basti pensare all’”Adorazione dei Magi”, mai terminata e poi sostituita con quella di Filippino). Secondo altri invece la pala del “San Gerolamo” era destinata per una cappella laterale della Badia. In questo caso si potrebbe avanzare l’ipotesi che fosse stato il padre di Leonardo Piero, a fare da intermediario per la commissione della tavola, dato che la famiglia Vinci, nel 1472, aveva una cappella funebre personale proprio nella suddetta chiesa.
Quali sono le prime notizie del “San Gerolamo”? Nel 1495, in un inventario scritto a Leonardo, compaiono vari dipinti, tra cui alcuni che hanno come soggetto il santo, ma non c’è la certezza che ci fosse anche la copia di Roma. Un altro dubbio è se il dipinto facesse parte del lascito del Salai (Gian Giacomo Caprotti, un allievo molto burrascoso di Leonardo).
Il dipinto è nominato per la prima volta nel volume “Italienische Forschungen”, del 1827, pubblicato da Carl Frederich von Rumohrs, che aveva visto il “San Gerolamo” dal cardinale Joseph Fesch a Roma. Il dipinto rimase qui fino alla morte di quest’ultimo e venne poi dato dagli eredi a papa Pio IX tra il 1846 e il 1857. Da questo momento l’opera è rimasta custodita nella Pinacoteca Vaticana. Ma chi era Joseph Fesch e come arrivò a possedere il quadro? Secondo una fonte il “San Gerolamo” sarebbe appartenuto ad Angelica Kauffmann, una pittrice che viveva a Roma nell’Ottocento. Intorno al 1820 il cardinale Joseph Fesch, zio di Napoleone, trovò una parte del quadro dentro un negozio di antiquariato. Era attaccato ad uno sportello ed era dipinto in modo sublime. Gli piacque così tanto che decise di acquistarlo. Questo dipinto però era solo una parte di un quadro intero. Mancava infatti la testa della figura. La parte mancante sarà ritrovata in un negozio di un ciabattino utilizzata come schienale di uno sgabello. Fesch unì le due parti con uno spesso strato di vernice. È un mistero come arrivò poi nelle mani della Kauffmann, ma compare nel suo testamento. Gran parte dei critici si trovano in disaccordo con questa ipotesi e ritengono che sia solo una “favoletta” inventata per dare un alone di mistero in più al dipinto.
La datazione dell’opera è molto dubbia, ma si ritiene sia stata realizzata all’incirca nello stesso periodo dell’”Adorazione dei Magi” (1481-82) dato che le due tavole sembrano molto simili. Alcuni ipotizzano sia stata dipinta poco dopo l’”Adorazione dei Magi” per il semplice motivo che nel contratto stilato con i monaci della chiesa di San Domenico, Leonardo si impegnava a non iniziare nessun’altra opera prima di aver terminato l’”Adorazione dei Magi”. Sappiamo però che Leonardo non fu sempre ligio al dovere e niente esclude che possa aver iniziato il “San Gerolamo” mentre lavorava per i monaci di San Domenico.
Passiamo ora ad una descrizione del quadro. Il San Gerolamo è inginocchiato al centro della tavola (il modello è stato ripreso dalle figure inginocchiate molto comuni nelle botteghe del Quattrocento). Davanti a lui il leone, a cui precedentemente deve aver tolto la spina dalla zampa. Dietro è presente un paesaggio roccioso, che ricorda quello delle “Vergine delle rocce” (per questo motivo molti ritengono che la tavola sia stata dipinta intorno al 1483-85). Il santo ha un’espressione sofferente, con la mano sinistra si sfiora il petto, con la destra afferra un sasso. Il suo sguardo è rivolto in alto, verso un piccolo crocifisso che purtroppo si scorge appena. Tra le rocce sullo sfondo si intravede una piccola chiesa rinascimentale che può alludere alla chiesa della Natività di Betlemme (dove il santo verrà sepolto), menzionata nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. Rispetto alla tradizione iconografica del XV secolo, Leonardo non rappresenta san Gerolamo con la barba, ma totalmente glabro e si concentra molto sull’aridità del luogo che richiama forse la lettera del 384 di Gerolamo a Eustochio. Qui il santo descrive i motivi per cui si deve rinunciare ai piaceri della carne e allo stesso tempo alle tentazioni a cui è sempre esposto quotidianamente. Nello sguardo del santo si vede infatti molta sofferenza che Leonardo, come sempre, riuscì a rendere con grande maestria.
Come abbiamo detto prima, non sappiamo chi commissionò il quadro e nemmeno quale fosse la sua destinazione. È quindi probabile che la tavola non assolse mai la sua funzione religiosa e probabilmente Leonardo la portò con sé fino alla morte, quindi anche durante il suo ultimo soggiorno in Francia alla corte di Francesco I (anche se questa teoria deve essere presa a mio avviso con le pinze, in quanto non sembra figurare tra le opere viste da Antonio de’ Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona in visita a Cloux in Francia).
Per saperne di più, anche sul corpus completo delle opere del maestro vinciano, vi consiglio la lettura del libro "Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e i disegni" di Frank Zöllner, edito dalla Taschen nel 2016.