Partiamo da un gennaio del ’68. Nell’anno in cui il mondo si ribellava alle autorità, in cui le voci si univano per abbattere barriere e costrizioni, un violentissimo terremoto azzittì la Valle del Belice – nel sud ovest della Sicilia, provocando danni irreparabili al territorio e alle popolazioni locali. Paura, desolazione e precarietà cambiarono nel giro di pochi giorni le vite di almeno una ventina di piccoli centri, tra Palermo, Agrigento e Trapani. Lì dove da sempre i suoni erano più ovattati, in una collinare Sicilia vinicola lontana dalle grandi città, fu la natura l’autorità più prepotente sugli uomini. Tantissimi i morti e i feriti, grandissima la difficoltà nei soccorsi, moltissimi gli sfollati. In una notte si persero affetti e concittadini, ma anche case, vie, interi e storici punti di riferimento.
Data l’entità della devastazione, negli anni ’70 seguirono le costruzioni di nuovi centri ad alcuni chilometri di distanza dai vecchi borghi distrutti: tra le altre, le nuove Gibellina, Poggioreale, Salaparuta.
La storia del Cretto inizia a prendere forma dall’idea dell’allora sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, che vide proprio nell’arte il possibile riscatto sociale per quei territori. In un momento in cui le premure esterne erano di ridare case, vie, caserme, uffici postali a chi aveva perso ogni cenno familiare, il sindaco provò a guardare oltre. Oltre le mura, oltre i mattoni, lì dove gli abitanti avevano lasciato affetti, emozioni, sensazioni, abitudini. Rimase convinto che un dopo senza un legame con il prima, non avrebbe potuto in nessun modo generare nuova luce.
Chiamò così a raccolta artisti italiani e internazionali che, a titolo gratuito, volessero ridare un’anima a Gibellina: tra questi Alberto Burri.
«Andammo a Gibellina con l'architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest'avvenimento.»
(Alberto Burri, 1995)
A detta di chi lo conosceva e ci collaborava, Burri era un animo severo, rigoroso, com’è stato definito dallo psicanalista M. Recalcati “uno non facile alle lacrime”. Eppure nel 1985 il lavoro partì da quell’inaspettata commozione, nel silenzio delle campagne della Sicilia sud-occidentale che Burri non volle mai davvero turbare.
Il Cretto, i cui lavori cominciarono tra il 1985 e il 1989 e si conclusero poi nel 2015, si presenta come un’immensa superficie di cemento che si sviluppa in circa 80mila metri quadri, ripercorrendo la toponomastica e le vecchie vie della città storica di Gibellina. Come un enorme calco sulle rovine e le macerie, l’opera appare dall’alto come un terreno arso, con fratture ampie un paio di metri e alte poco meno, proprio su quelle che erano le vie della demolita città della Valle.
L’artista “informale” dei sacchi, delle combustioni, delle “ferite” sulla materia trova forse proprio in quest’opera un incontro delle sue tante anime. La sua è stata una vita artistica dedicata a dare forma, dignità e valore ai rifiuti: dotando oggetti usati e logorati di una carica poetica, quasi fossero testimonianze, prove materiali, resti preziosi delle avversità umane.
La sensazione è esattamente la stessa, arrivando con la macchina nel giallo delle campagne del Belice, tra questa distesa di muri bianchi. Come di un’enorme cicatrice sulle ferite del terremoto, come di una commemorazione necessaria per poter ripartire, come di un’accettazione del lutto che non può che partire da dove la terra ha tremato.
L’opera di Land Art più estesa d’Europa è la rappresentazione della salvezza dell’arte e dei ricordi, è una difesa dell’insostituibilità del vecchio con il nuovo, contro le tentazioni umane della facile ripartenza, della facile distruzione senza sforzo di memoria, per provare a mettere via un peso che in qualche forma comunque ritorna a galla. E allora il lavoro di Burri in questo senso diventa pazienza, resistenza, accettazione del tempo che serve a ricucire, a guarire ferite su cui nasce una pelle diversa, nuova ma non uguale al prima perché per sempre consapevole dei segni delle scosse subite. L’evoluzione e la trasformazione diventano testimoni nella misura in cui sanano le fratture con i ricordi, non con la cancellazione. Perché se è vero che non si può continuare con quello che è stato, è anche vero che non si può non continuare. E Burri riparte da questo bianco, dalla bellezza che non scongiura la ferita, non la evita, ma la ospita, addirittura la innalza.
Perché passandoci vicino, non è difficile empatizzare con Burri: il Cretto commuove, effettivamente. Commuove proprio perché ne conosci la storia, respiri quello che è stato, ne immagini le vie tranquille e allo stesso tempo piene di vita che scorreva inconsapevole e leggera. Senza l’assimilazione del trauma che ha spezzato questo equilibrio rimarrebbe un’opera vuota, una colata di cemento in una campagna dell’agrigentino. E col vuoto, Burri e la valle del Belice non hanno proprio “nenti a cchi fari”.
Di Carlotta Di Filpo
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