Di Federica Pagliarini
Pieter Brueghel il Vecchio viene considerato un seguace del misterioso Hieronymus Bosch, autore di quadri onirici, “diabolici” e alquanto misteriosi. Sulla vita di Brueghel si sa molto poco (come purtroppo accade per una vasta fetta di pittori olandesi di questo periodo incluso Bosch). Una fonte è Karel van Mander che scrisse lo Shilderboeck, molto simile alle “Vite” di Giorgio Vasari, dove si trattano le storie dei pittori italiani e del nord Europa. Mander non dà un giudizio molto positivo al nostro Brueghel. Viene dipinto come un pittore grossolano, semplice, insomma alla stregua di un contadino rozzo. Una data certa è quella della morte. Sappiamo essere stato sepolto a Notre Dame de la Chapelle a Bruxelles. Sulla tomba si legge la data della morte, 1569, apposta da un pronipote di Brueghel nel 1676. La data di nascita può essere invece solo dedotta. Si iscrisse alla gilda di San Luca di Anversa, entrandone a far parte come maestro, nel 1551. Visto che ci si poteva iscrivere entro i ventuno, massimo venticinque anni, si può ipotizzare una data di nascita che oscilla tra il 1525 e il 1530. Anche sul luogo di origine ci sono varie ipotesi. Ludovico Guicciardini nella sua Descrittione de’Paesi Bassi parla di Pietro Brueghel di Breda. Non c’è però nessuna prova documentaria che possa attestare quanto scritto. Van Mander afferma che sia nato in un villaggio nei pressi di Breda, chiamato proprio Brueghel o Bröghel, nel Brabante settentrionale (per questo si firmerebbe con questo nome). Chi era il suo maestro? Presso chi ricevette la prima istruzione? Sempre secondo Karol van Mander il suo maestro sarebbe stato Pietert Coecke van Aelst, iscritto anche lui alla gilda di San Luca di Anversa dal 1527, registrato a Bruxelles dal 1544. In realtà se si confrontano le loro opere, non si nota molta somiglianza nello stile. Coecke però non era solo un pittore, era un uomo di cultura a 360°. Si interessava alla scultura, all’architettura e agli arazzi. È probabile quindi che sia stata una figura molto preziosa per la sua formazione culturale generale. Se vogliamo vedere una somiglianza nello stile si è parlato invece di Matthijs Coeck, molto vicino allo stile paesaggistico e raffinato che utilizzò anche Brueghel nelle sue tele. Matthijs Coeck era anche il fratello di Hieronymus Coeck, l’incisore e editore che pubblicò i disegni di Brueghel. E fu lui che indirizzò Brueghel verso Bosch, facendogli riprodurre una serie di suoi disegni da preparare per alcune incisioni.
Da Bosch Brueghel riprese, anche se in maniera più delicata, quel repertorio di creature fantastiche, ai limiti del fantascientifico e in particolare i cosiddetti “grilli”. Si tratta di figure polimorfe, metà uomini e metà animali. Si pensa abbiano un significato apotropaico. Compaiono intorno al II-III secolo d.C. e vengono usate soprattutto nei codici miniati, assumendo però un valore maligno. Bosch la riprenderà in questo senso, ancora legato alla mentalità medievale. Brueghel invece usa la loro bestialità come soggetto per la rappresentazione.
Per capire meglio l’arte di Brueghel soffermiamoci su un suo quadro, “La parabola dei ciechi” (1568), conservato a Napoli, nel Museo Nazionale di Capodimonte. Che cosa rappresenta? In primo piano vediamo sei uomini ciechi che, in fila indiana, cercano di camminare sorreggendosi al compagno di fronte. I loro occhi guardano il vuoto, sono spenti. Il primo uomo cade e inevitabilmente cadranno poi tutti gli altri. Sullo sfondo un paesaggio di campagna e uno chiesa.
Il quadro illustra la parabola di ciechi che si trova all’interno dell’Antico Testamento, molto diffusa all’epoca di Brueghel e chi si trovava già in un’altra opera del pittore: I Proverbi Fiamminghi (1559). Il dipinto venne copiato da alcuni artisti secenteschi. In quello di Francesco Maria Reti si vede un particolare poi scomparso nell’originale di Brueghel: il vallone dove cade il primo cieco.
La tela è stata interpretata come un messaggio contro il clero corrotto, un “memento mori” vero gli eretici. I ciechi assumono qui il significato di persone che hanno perso la retta via perché si sono distaccate dalla vera religione.
Nel Cinquecento, nei Paesi Bassi, c’era un’accesa lotta tra cattolici e protestanti. Quindi gran parte dei riformatori usavano questa parabola come monito contro i loro avversari. Brueghel in questo caso non si mette dalla parte di nessuna delle due “fazioni” e si mantiene in una posizione neutrale.
Il dipinto apparteneva al fiorentino Cosimo Mesi, collaboratore di Alessandro Farnese. Nel 1611 la “Parabola dei ciechi” entrò a far parte della collezione Farnese, quando Ranuccio Farnese confiscò i beni dei feudatari parmensi che avevano organizzato una congiura contro la sua famiglia. È ancora dubbia la sua committenza. Come arrivò nelle mani di Cosimo Mesi? È un dato che purtroppo ancora non abbiamo.
La “Parabola dei ciechi” rientra nella fase tarda pittorica di Brueghel. Rispetto alla prima fase dove si affollavano numerose figure, in questa tela vediamo la presenza di pochi personaggi che sono, tra l’altro, tutti caratterizzati, ognuno con la sua gestualità.
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