In che modo la politica ha influenzato e continua ad influenzare l'arte? Si può dire che l’inizio sia stato con Napoleone. Lo stratega aveva capito che la Francia avrebbe ottenuto l'egemonia politica solo conquistando anche quella culturale. Si cominciò così col dare importanza alla figura dell'imperatore, creando una serie di busti che volevano enfatizzare la sua figura. E oltre a ciò iniziò un'ampia requisizione di opere soprattutto in Italia. Avrebbero dovuto arricchire e impreziosire le collezioni d’arte francesi.
Durante la seconda guerra mondiale i nazisti con le loro razzie hanno limitato la libertà di pensiero in tutti i campi. E l’arte purtroppo ha ricevuto un durissimo colpo. Da questo momento la politica (totalitaria) inizia a controllare a 360° ogni angolo del sistema artistico. Con Hitler assistiamo ad una sorta di “indice dei quadri proibiti”. Vennero vietate tutte quelle opere d’arte che non rappresentavano figure reali e che non potevano essere comprese nelle loro fattezze. Possiamo ben comprendere come il movimento dell'astrattismo, nato negli anni dieci del Novecento (con il famoso manifesto “De Blaue Reiter”) non poté avere lunga vita. Tantissime opere furono requisite e la “Bauhaus”, dove insegnava uno dei precursori più importanti dell'astrattismo Kandinsky, venne fatta chiudere. Le avanguardie artistiche vennero definite una “beffa culturale ebreo-bolscevica”. Sembrava di essere tornati nel Medioevo, una sorta di “caccia alle streghe”. Terribile fu la mostra sull'arte degenerata tenutasi a Monaco nel 1937 con l’esposizione dei quadri requisiti che sarebbero poi dovuti essere distrutti perché non consoni all’idea del regime. Fortunatamente, tanti generali nazisti, amanti dell’arte, conservarono alcuni dipinti, salvandoli dalle folli razzie.
In questo periodo di regimi totalitari, come si comportò il fascismo? Prima di tutto non ostacolò il movimento del futurismo, nato agli inizi del Novecento. Mussolini e Giuseppe Bottai, ministro della cultura, si avvicinarono però di più a quello del “Novecento” che aveva Mario Sironi come membro principale. Un movimento che si richiamava all’antichità classica e alla purezza delle forme. Anche nel loro caso l'arte doveva manifestare le loro ideologie politiche. Alla GNAM di Roma abbiamo un esempio eclatante di arte futurista devota al regime fascista. Gerardo Dottori realizza un polittico nel vero senso della parola. Molto simile a quelli realizzati da Beato Angelico o Piero della Francesca nel Quattrocento. La costruzione è piramidale e il ritratto del duce non poteva non occupare la “cimasa”, ossia la parte alta di questo polittico.
Anche con la fine della seconda guerra mondiale e con il tramonto dei regimi totalitari, l’arte continuò ancora a intrecciarsi con la politica. Pensiamo al movimento di “Forma 1” nato nel 1947. Gli artisti Accardi (unica donna del gruppo), Attardi, Consagra, Dorazio, Perilli, Sanfilippo, Turcato e anche Guttuso (che se ne distaccò prestissimo, come Attardi), si impegnavano a reinventare la forma pura e il formalismo. La loro frase più famosa è questa: “…ci interessa la forma del limone, non il limone”. Era un chiaro rigetto nei confronti del Partito Comunista che stava manifestando la sua indignazione per l’arte astratta. Palmiro Togliatti non era entusiasta dell’arte proposta dal gruppo. Giudicava i loro quadri solo degli scarabocchi, non adatti al decoro pubblico. Prediligeva l’arte figurativa, dove tutto doveva risultare chiaro e non doveva essere decifrato sotto un “garbuglio” di segni. Renato Guttuso si distaccò dal movimento (nonostante inizialmente il gruppo si riuniva nel suo studio in via Margutta a Roma) avvicinandosi proprio al Partito Comunista. Nel 1976 venne anche eletto al Senato per il PCI nel collegio di Sciacca. E da allora la sua arte fu sempre devota al partito. Famoso è il quadro “I funerali di Togliatti” (1972), che rappresenta il corteo che nel 1964 partecipò ai funerali del segretario e leader del Partito Comunista. Evidenti sono le bandiere rosse che spiccano tra la folla di gente accorsa a porgere l’ultimo saluto a Togliatti. I rossi si oppongo ai grigi e evidenziano gli ideali che sopravvivono agli uomini.
Anche fuori dall’Europa abbiamo chiari esempi di politica e censura dell’arte. La Cina ne è un esempio eclatante, dalla Guerra Fredda fino ad oggi. Un esempio? Una mostra tenutasi nel 2002 da cui fu esclusa una scultura di Li Zhanyang perché era chiaro il suo distacco dal regime.
Arriviamo ora ai giorni nostri. In che modo l’arte si interessa di politica? Sicuramente non abbiamo più un’immersione totale e l’arte cerca di provocare anziché di esaltare un partito politico. Come mai? Le risposte sono molteplici e non uguali per tutti gli artisti. Voglia di riscatto? Protesta contro una politica che non fa più il suo lavoro? E’ un po’ tutto questo. Citiamo per esempio Maurizio Cattelan, che, nonostante si sia ritirato dalla scena artistica nel 2011, ha fatto parlare tanto di sé. E come non avrebbe potuto? I bambini pupazzi appesi in Piazza XXIV maggio a Milano nel 2004 sono un chiaro esempio. La folla ne rimase sconvolta proprio perché sembravano veri bambini impiccati. Il sindaco Albertini non sapeva se fare i complimenti all’artista o farlo espellere per sempre dall’Italia. Il suo Hitler, piccolo omino ravveduto, inginocchiato davanti ad un nulla che può essere identificato come l’aura di Dio, chiede perdono per tutti i crimini commessi. La sua genialità è stata riconosciuta e premiata, sbancando all’asta di Christie’s per 17.189.00 dollari.
Vorrei terminare questa breve retrospettiva con l’arte dell’artista cinese Ai Wei Wei che afferma “L’arte è sempre politica”. E lo dice a seguito della mostra che si può visitare oggi a Palazzo Strozzi a Firenze dedicata al tema dei migranti. Un problema che oggi sta affliggendo la politica di tutta Europa. Ai Wei Wei si sente anche lui un migrante, costretto a fuggire dalla sua terra natale dal regime comunista quando era bambino. Il padre, anche lui artista, era stato rifiutato e cacciato dal Partito Comunista e quando entrambi arrivarono in America l’integrazione fu lunga e difficile. La sua è un’arte “politicissima”, è un ribellarsi al regime cinese. “Tutto è arte, tutto è politica” termina così Ai Wei Wei in un’intervista alla Princeton University Press. E nel suo caso non possiamo che essere d’accordo.