E’ in mostra a Londra, fino al 19 marzo 2017, l’artista britannico Gavin Turk alla galleria “Newport Street Gallery” gestita da un altro grande artista: Damien Hirst. Per chi non lo conoscesse, Hirst è famoso per delle installazioni molto particolari. Sono delle grandi teche piene di formaldeide, all’interno delle quali vengono “imbalsamati” animali, come squali e maiali. Altre volte possono essere immersi in pillole mediche o in strumenti chirurgici. Il suo manifesto iniziale è stata l’opera The Physical Impossibility Of Death In the Mind Of Someone Living , in cui imbalsamò nella formaldeide il suo primo animale, ossia uno squalo tigre lungo quattro metri. Da cosa derivò questo interesse per gli animali morti? Da una visita all’obitorio di Leeds. Fu un suo amico a portarlo lì e l’artista ne rimase affascinato. Il suo interesse e il suo interrogativo è quindi sul tema della morte e sull’esistenza umana. Sembra quasi voler esorcizzare la fine del tutto con la medicina e gli strumenti chirurgici.
Proprio lui, Damien Hirst, è un grande collezionista dell’artista Gavin Turk, di cui possiede più di novanta opere. Un artista che diventa gallerista e collezionista. Le due professioni sembrano essersi unite, contrariamente a chi ritiene che un’artista non possa essere insieme anche un gallerista.
Entrambi (Hirst e Turk) fanno parte del gruppo degli “Young British Artist” (conosciuti anche solo con il nome di “Britart”). Il fondatore è stato Hirst che, nel 1988, diede inizio a questo gruppo con la mostra “Freeze”. La loro arte prevede l’utilizzo di materiali semplici e di recupero e l’intento è fortemente dissacratorio.
Gavin Turk in questa mostra mette in discussione l’identità dell’artista e l’autenticità delle opere. La domanda dilemma è questa: “Devi essere un artista per creare opere d’arte? O è l’opera d’arte che fa di te un’artista?”. Quesiti molto moderni e attuali nel mondo dell’arte contemporanea. Tra l’altro Turk iniziò la sua carriera mentre era studente alla “Royal College of Art” con un’opera che portò scandalo, intitolata “Cave”. Tale opera poneva la domanda sullo status di artista prima ancora di esserlo. Un fallimento che si trasformò però in successo, perché l’opera fu acquistata dal collezionista Charles Saatchi e da quello stesso momento Turk entrò a far parte del gruppo degli “Young British artist”.
Il titolo della mostra di Turk a Londra già ci dice tutto: Who what when where how and why che significa: chi, cosa, quando, dove, come e perché. Domande sul ruolo dell’artista e sul suo posto nel mondo. La curatela è stata gestita sia da Turk che da Hirst. La maggior parte delle opere in mostra sono dei rifacimenti di opere di altri artisti, anche molto famosi. E’ il caso di Pollock: Turk imita il suo dripping, anche se poi, avvicinandosi, ci si rende conto che il colore non è altro che la ripetizione del suo nome, la sua firma. Si può parlare di ossessione per la prevalenza e la “superiorità” dell’artista. Ecco perché ci sono le firme ripetute all’ infinito. In altri casi finge di essere Pollock e reinterpreta la famosa performance fotografata da Hans Namuth nel 1950. Da qui il tema della maschera e del travestimento. I rifacimenti si allargano quindi a Van Gogh, Dalì, Matisse, ma anche a Robert Morris di cui ricrea i suoi famosi cubi specchianti.
Importante è anche l’interesse per il tema della persona che diventa icona. Nell’opera “Identity crisis” (1984) vediamo l’artista su una copertina di un giornale chiamato “Hello!”, con la moglie e il figlio nato da poco. E al di sotto una scritta ironica: “Gavin Turk, l’artista si rilassa a casa con la famiglia dopo la nascita del primogenito”. Basta essere su una rivista per essere qualcuno di importante e famoso? Questa sembra essere la domanda. Di particolare interesse anche la tematica degli “scarti” e dell’”invisibile”, dove Turk si interroga sugli “scarti sociali”, ossia tutte quelle persone che vengono allontanate dalla società, come vagabondi o outsiders. E da queste riflessioni nascono i sacchi a pelo, i torsoli di mela, le cicche delle sigarette e le gomme delle macchine sgonfie. Tutti quegli oggetti che richiamano il mondo del “vagabondaggio”.
Termino con le parole dell’artista: “Il mio intento è fare delle cose che non sono quello che sembrano. Mi interessa il punto in cui una cosa diventa altro da sé”.