Damien Hirst è ormai un’icona di brand nel mondo dell’arte. È considerato l’artista vivente più ricco del mondo, l’unico che è riuscito a vendere una sua opera, nel settembre 2007 ad un gruppo di investitori, a ben 50 milioni di sterline (sto parlando del famoso teschio di platino tempestato di diamanti “For the Love of God”). Artisti come Hirst fanno parte di un branding, nonostante la parola si usi maggiormente per prodotti di consumo. Far parte di un brand consente di far capire a galleristi o collezionisti se stanno per comprare opere di qualità oppure spazzatura. Ma come si entra a far parte di un brand famoso? Succede un po’ come le case di moda. Intanto avere tanta fortuna (oltre che bravura che forse, lasciatemelo dire, spesse volte nell’arte contemporanea, non serve proprio) e poi trovare un gallerista e intermediario, che ci sappia fare per la vendita delle opere. A Damien Hirst è accaduto così. Torniamo indietro nel 1991, quando decise di realizzare una delle sue prime opere “skock”, il famoso squalo imbalsamato in una teca. Si intitola “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living” (L’impossibilità fisica della morte nella mente di un essere vivente). Tutti i titoli di Hirst sono lunghi e apparentemente senza senso. Poteva benissimo chiamarlo “Squalo” così che la gente potesse subito relazionare l’opera con il titolo e dire “Sì è vero, questo è proprio uno squalo”. Ma anche questa è una mossa del branding. Dare alle opere dei titoli lunghi e anche “complessi” spinge lo spettatore a darsi delle spiegazioni, a chiedersi perché l’artista lo abbia fatto. Queste le parole di Hirst in un’intervista a “Frieze”:
Mi piace l’idea di qualcosa che descrive una sensazione. Uno squalo fa paura, è più grande di te, si muove in un ambiente a te sconosciuto. Sembra vivo quando è morto e morto quando è vivo
Lo squalo venne creato nel 1991 con i finanziamenti del collezionista Saatchi. L’animale venne catturato in Australia e portato in Gran Bretagna dove venne imbalsamato e messo in una teca. L’opera venne valutata 12 milioni di dollari (la cifra più alta mai pagata fino a quel momento per un artista vivente) e il venditore era proprio Saatchi che quattordici anni prima aveva commissionato l’opera ad Hirst per 50.000 sterline. L’intermediario incaricato di venderlo era il famosissimo gallerista Larry Gagosian. L’opera venne comprata da Steve Cohen, che lavora nel campo della finanza ed è proprietario della Capital Advisors a Greenwich. Nel 1992 lo squalo di Hirst venne esposto nella sua galleria privata a Londra, ma pochissimo tempo dopo si decise di sostituirlo con un altro, dato che quello si stava decomponendo. Hirst chiamò il pescatore che l’anno prima aveva catturato lo squalo per chiederne altri. Doveva inviarne tre (tra cui uno squalo tigre), ma alla fine ne inviò cinque, uno anche in regalo. Scelsero così il nuovo squalo e lo riempirono di formaldeide (circa mille litri). Da lì il povero animale andò in mostra al Kunsthaus Museum di Bregenz, in Austria e poi nel 2007 al Metropolitan di New York, dove rimase per tre anni. Possiamo comprendere come Saatchi e Gagosian siano stati importanti per la fama di Hirst e per la sua entrata nel mondo del “branding”. Capirono subito che l’artista originario di Bristol aveva un qualcosa in più e che avrebbe attratto masse di spettatori e galleristi incalliti. Inoltre una delle cose che conferisce valore ad un’opera, è la sua unicità nel mondo (anche se in questo caso uno squalo era già stato esposto da un uomo di nome Eddie Saunders).
Le opere realizzate da Hirst sono tantissime e possono addirittura essere divise in categorie:
-“natural history”: i suoi animali imbalsamati e a volte anche sezionati
-“cabinet series”: collezioni di strumenti chirurgici e scatole di pillole in armadietti per medicine
-“spot paintings”: cinquanta o anche più cerchietti colorati su superficie bianca, ordinati in file e colonne
-“spin paintings”
-“butterfly paintings”: collage con tate ali staccate, oppure intere farfalle tropicali montate su tele
L’opera più famosa è senza ombra di dubbio “For the Love of God”, un calco in scala 1:1 di un teschio umano (su un modello di un teschio del diciottesimo secolo di un uomo di circa trentacinque anni), rivestito di platino e tempestato di diamanti. Il teschio venne comprato in un negozio di tassidermia di Islington. I diamanti sono 8601 per un totale di 1100 carati. Il titolo datogli è stato ripreso dall’esclamazione fatta dalla madre di Hirst quando ha saputo del progetto della nuova opera del figlio. Sicuramente l’idea di realizzare un teschio si rifà al concetto del “memento mori”: era importante ricordarsi della morte che ci aspettava. Sulla fronte del teschio, è stato incastonato un diamante rosa di 52,4 carati. Dicono che solo questo valga 4 milioni di sterline. Cifre da capogiro. La realizzazione dell’opera è stata affidata ad alcuni artigiani della gioielleria Bentley and Skinner di Bond Street, supervisionati da Hirst in persona. Venne esposto per la prima volta nel 2007 nella mostra “Beyond Belief” alla galleria White Cube” di Mayfair a Londra. L’allestimento era molto particolare e serviva a mettere ancora più in mostra il teschio. Si trovava in una stanza oscurata, illuminata solo da faretti. Possiamo immaginare che riflessi e che luce veniva sprigionata dai diamanti incastonati. Un vero e proprio bagliore. I visitatori potevano entrare con un biglietto a tempo e in gruppi da non più di dieci persone.
Tutte le opere di Hirst mettono in ballo un problema che sembra tipico di tutta l’arte contemporanea. Chi è il vero artista? Colui che ha l’idea dell’opera oppure chi la realizza? Come detto prima, Hirst ha fatto realizzare il teschio da alcuni artigiani e ha fatto trovare lo squalo da un pescatore. Come facciamo a decidere chi è l’artista? Un tempo, per esempio nell’arte rinascimentale, era l’artista a fare tutto: ideazione e realizzazione. Basti pensare a Michelangelo, Leonardo, Donatello e così via. Adesso questa cosa sembra essere totalmente passata di moda. Anche Cattelan e Jeff Koons si fanno aiutare da ditte apposite per realizzare le loro opere. Sembra una diatriba molto simile a quella che vide coinvolti l’arte delle vetrate. Chi era da annoverare come il vero artista? Chi realizzava il disegno per la vetrata o chi la componeva? Mai si è riusciti a dare una risposta univoca. Io direi il 50% ad ognuno. Peccato che adesso gran parte del merito e della fama vada tutto all’artista che ha l’idea. Chi conosce lo squalo imbalsamato di Hirst, lo associa alla sua figura e non certamente al pescatore che glielo fece avere, come per il teschio nessuno menzionerà mai la squadra di artigiani che svolsero un lavoro tanto minuzioso e costoso. Ma questa è l’arte contemporanea, basata essenzialmente sul marketing e sul branding. Inoltre più un’opera è eccentrica e fa scalpore, più attira gente e l’artista diventa famoso. Non è successo lo stesso anche a Maurizio Cattelan con i suoi bambini impiccati a Milano e con il Papa colpito da un meteorite?
Lascio a voi altre considerazioni su questo mondo eccentrico, quanto affascinante. Cosa ne pensate dell’arte contemporanea?
Consiglio la lettura del libro "Lo squalo da 12 milioni di dollari" di Donald Thompson. Partendo dall'opera di Hirst, lo scrittore propone un ampio studio sull'economia dell'arte, sulle gallerie e i loro sistemi e sul branding nell'arte.
Se siete di Roma, potete trovarlo nel bookshop del MACRO in via Nizza. Altrimenti potete cercarlo online su amazon e usato su libraccio.it