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Emozione Arte

Giorgio de Chirico: non solo pittura metafisica



L’arte di Giorgio de Chirico ha da sempre affascinato gran parte della critica e degli appassionati. Le sue tele, immerse in un’atmosfera senza tempo, dove si stagliano figure dell’antichità classica, colonne e manichini, racchiudono al loro interno un significato profondo, maturato nel corso della giovinezza dell’artista. Nato nel 1888 a Volo, in Tessalonica, de Chirico passò la prima infanzia spostandosi tra la città natale e Atene (dove era nato il fratello Alberto nel 1891, che prenderà poi il nome d’arte di Alberto Savinio) a causa del lavoro del padre (era un operaio delle reti ferroviarie). Solo dopo la morte di quest’ultimo (avvenuto nel 1905), De Chirico parte con la madre Gemma e il fratello per l’Europa. Si fermarono a Roma, Milano, Venezia, stabilendosi alla fine a Monaco, dove Giorgio si iscriverà all’Accademia di Belle Arti. Il nostro artista cominciò subito a dedicarsi alla pittura, già nel 1908, portando una ventata di aria nuova, con temi e messaggi mai visti prima, ma che racchiudevano al suo interno dei significati ben precisi, maturati già durante l’infanzia. Il mito sarà alla base della sua arte e non c’è da stupirsi dato che nacque in Tessalonica (tornata alla Grecia dopo essere stata dominio degli Ottomani) e si spostò anche ad Atene, culla della civiltà greca. Per de Chirico il mito serviva all’uomo per svelare misteri mai prima risolti. I suoi primissimi quadri hanno al loro interno una chiara esperienza personale e chi guarda non deve fermarsi alla superficie, ma deve vedere ciò che c’è al di sotto. Le sue tele vogliono rielaborare le immagini, rendere chiaro a chi guarda ciò che normalmente non si riesce a vedere.

Importantissima fu la scoperta del filosofo tedesco Nietzsche (seguito anche dal fratello Alberto). I messaggi che de Chirico riprese da Nietzsche sono essenzialmente due: lo sguardo psicologico sul mondo e la consapevolezza di assimilarlo come un presente eterno. Per il filosofo tutto ha un’anima e un proprio linguaggio. Tutto deve essere interpretato dal punto di vista del presente, perché il passato non c’è più, è volato via e sul futuro non si sa ancora nulla, è incerto. Ed è da queste letture che nasce l’idea del pittore “mago”, rivelatore di quello che nessuno conosce. La sua arte diventa ricca di segni (elementi semplici come una colonna greca o il frontone di un tempio), di allegorie nascoste che solo lui è in grado di sciogliere.

Nel 1910 è a Firenze con il fratello e qui nasce l’idea di un’arte “metafisica”. Cosa significa? Che l’immagine deve rappresentare l’essenza interna, il non visibile, deve scontrarsi con altri segni per svelare il suo significato. In questa prima fase sono davvero poche le opere rimaste, solo cinque: “L’enigma dell’oracolo”, “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, “Ritratto del fratello”, “L’enigma dell’ora”, L’Autoritratto Et quid amabo nisi quod aenigma est?”. Non conosciamo con certezza i motivi che lo spinsero a dipingere così poche tele. Certamente un elemento preponderante lo giocò la morte del padre e il successivo stato di depressione. “L’enigma dell’ora” (1911) è una tela densa di significati. La scena in realtà è semplice: un edificio a due piani con arcate e logge occupa tutta la tela. Al centro campeggia un orologio. Una fontana zampilla acqua che è sempre la stessa perché ricircola in modo infinito. Una piccola figurina vestita di bianco, rappresenta l’uomo, pensatore sul suo futuro oltre che sul suo presente. La demarcazione tra queste due linee temporali è evidente dalla striscia d’ombra che divide a metà il pavimento della scena.



Tappa importante fu poi la città di Torino, in cui sostò ben due volte. La seconda fu quella decisiva, che lascerà in de Chirico delle emozioni indelebili. Siamo all’inizio di marzo del 1912. Il pittore deve svolgere il servizio militare, ma disertò dopo pochi giorni scappando a Parigi. Qui la sua arte cambia e fino al 1914 fioriscono opere in cui evidente è il richiamo alla città di Torino. Gli edifici sono ben riconoscibili: la stazione di Porta Nuova, la Mole antonelliana, palazzo Carignano. Il tutto però è immerso in un’atmosfera strana, quasi irreale. La città sembra essere una città fantasma. Non si vedono persone passeggiare, se non a volte una o due figurine stilizzate che essendo davvero piccole, si fa fatica anche a vederle. Ancora c’è il richiamo a Nietzsche, alla fase della sua follia. Chiari sono i sentimenti di nostalgia, melanconia, angoscia. Oltre agli edifici, protagonisti indiscussi, vediamo stagliarsi statue greche, come Dioniso o Arianne. Statue che vogliono essere svegliate dal loro sonno universale e prendere vita. Nel 1913 nascono oggetti diversi: caschi di banane, manichini, mazzi di carciofi e cannoni. Il tutto sempre sullo sfondo di una Torino deserta che si trasforma poi in Parigi. È chiaro il senso di melanconia, di incertezza sulla vita, della paura, un bisogno di appartenere ad una patria che ancora non c’è.


De Chirico è inoltre un attento osservatore. Stava sì creando un nuovo linguaggio mai visto prima, ma nello stesso tempo prendeva spunto dalle avanguardie a lui vicine. Le linee di contorno sono tipiche dei pittori Nabis, la geometria spaziale è ripresa da Matisse, la semplificazione delle masse degli oggetti è tipica dal primo cubismo di Picasso… e si potrebbe continuare ancora!

La fase successiva è forse anche quella più conosciuta della pittura di de Chirico. Alle città fantasma e senza tempo, si sostituisce la figura del “troubadour”, del manichino. Una forma che ricorda quella umana, ma senza anima. L’idea è stata sicuramente ripresa dal manichino da sartoria di Savinio e dai saltimbanchi in legno o ferro di Archipenko. Ci troviamo a Ferrara, subito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale che porta in de Chirico tante incertezze. La città dava al pittore un senso di tranquillità e di calma che sembrava aver riacquistato dopo tanto tempo. In questo periodo si parla di “metafisica delle cose comuni” che affonda le sue radici in un’analisi quasi maniacale della “pazzia” che de Chirico aveva già avuto modo di studiare con Nietzsche. A Ferrara dipinge quadri dall’aspetto ossimorico. Infatti in una prima fase vediamo scene ambientate in pareti strette, piccoli uffici, dove la finestra è l’unico elemento che consente di guardare fuori e dare uno sguardo alla vita, dopo il 1917 passa alle ambientazioni all’aperto. I manichini sono sempre i protagonisti, dialogano muti, uno di fronte all’altro e sono accompagnati da oggetti diversi tra loro: carte geografiche, tavoli, cavalletti, oggetti che richiamano tradizioni antiche e segni che celano un significato nascosto. Si parla di “grande pazzia”, quella che regola il mondo in quel periodo, quando la prima guerra mondiale porta le prime incertezze, le prime paure. Quegli oggetti così diversi tra loro, anche se meticolosamente ripresi dalla realtà, quei manichini senza anima, ma che sembrano parlare tra loro, rappresentano tutto questo. Un mondo fondato sulla pazzia, dove nulla ha più senso e ragione. È quasi un ammonimento che evidenzia come l’intelligenza e l’intelletto rendano chiaro il caos ma allo stesso tempo riescano a dominarlo attraverso la creazione di opere d’arte.



La fase ferrarese termina con un gruppo di quadri come “Ettore e Andromaca”(1917) e “Le muse inquietanti”(1918). Sempre importante il rapporto stretto tra realtà e essere umano. In “Ettore e Andromaca” c’è l’addio del soldato alla sua amata, un episodio ormai ciclico, che si ripete dalla notte dei tempi e che viene immortalato tramite il mito.

A questa fase di incertezza e paura, ne segue un’altra non molto felice per il nostro de Chirico, ma che riuscì a portare una spinta per nuovi studi e nuovi stimoli. A Roma, nella Galleria Bragaglia, allestisce una mostra personale sulle sue opere metafisiche. Purtroppo non viene accolta con grande successo di pubblico. Furono pochi quelli che ne rimasero colpiti e elogiarono il pittore. Anche Roberto Longhi, uno dei critici più influenti del tempo, non apprezzò per nulla la sua arte, anzi ne diede una stroncatura molto dura. Dopo questo episodio, de Chirico decise di dedicarsi allo studio di artisti del passato e di copiare le opere che più lo affascinavano. Era il 1919 e alla Galleria Borghese studiò pittori come Raffaello, quelli che suscitavano in lui nuovi stimoli. Un’opera ricca di citazioni all’antico è “Il ritorno del figliol prodigo” (1922), in cui evidenti sono i richiami a Mantegna, Poussin e Andrea del Sarto. Il quadro non fu apprezzato da tutti, perché ritenuto incomprensibile. In realtà de Chirico voleva sottolineare come netta sia la demarcazione tra tradizione e modernità, tra passato e presente. Da adesso in avanti, il pittore inserirà nei suoi quadri rimandi alla tradizione, ma aggiungendo sempre i mezzi del postmodernismo. Negli anni Venti è accolto nella casa dell’amico Giorgio Castelfranco e studia nuove tecniche, come la tempera all’uovo che lo porta alla scoperta di nuovi esiti pittorici. La figura umana è simile ad una statua e torna indietro ai suoi primi anni, reintroducendo le vedute architettoniche, reali e non, con una connotazione più romantica rispetto a prima. Nonostante tutto però, il successo economico e di pubblico tardano ad arrivare.


Tornerò nuovamente a Parigi e si legherà, anche se poco tempo, al movimento surrealista. Qui trova il modo di far convergere insieme, senza scontri, antico e moderno. Per de Chirico, Parigi diventa una “Atene ai tempi di Pericle”. Qui avrà un vero e proprio successo, esponendo alle gallerie di Rosenberg e Paul Guillaume. Nel 1927-28 nacquero le figure dei gladiatori e dei cavalli, oltre che l’interesse per l’archeologia. Quest’ultima è stata ispirata dalla vista, lungo un marciapiede di Parigi, di poltrone e arredi abbandonati. Da qui l’idea di inserirli su un palcoscenico elevandoli a monumenti o statue piene di significato. I cavalli invece erano presenti già dagli anni Dieci, ma adesso diventano quasi protagonisti indiscussi. Rappresentano sia la pulsione illogica della vita che un senso di libertà dello spirito. Dalla lettura del testo “Sur les trances de Pausanias” dell’antropologo James G., Frazer, nasce la serie di quadri iniziata nel 1926 dove i cavalli sono i protagonisti indiscussi selle tele. Lasciati liberi di correre sulla riva del mare piena di rovine antiche, rappresentano lo stato brado della fine di una civiltà. Il testo citato sopra infatti, racconta di Pausania che testimoniò la fine dell’Ellade all’alba del II secolo d.C., ormai deserta e sull’orlo della rovina. Il tema dei gladiatori è quello più sentito dal nostro pittore. Il soggetto nasce circa nel 1927 e ha richiami con l’arte musiva e del bassorilievo. È stato interpretato come una reazione contro la decadenza morale dell’Occidente, allo stesso livello degli imperatori del tardo impero romano che si scontravano con la barbarizzazione del mondo antico. Questi gladiatori sono rappresentati dentro stanze strette e hanno le sembianze di manichini o di statue antiche. Non hanno nulla di buono, al contrario rappresentano violenza e autorità.


Dal punto di vista della sfera sentimentale, de Chirico ebbe due campagne. La prima Raissa Gurievich Krol, era una ballerina russa e studentessa di archeologia con cui visse circa quattro anni a Parigi. Poi nel 1931 Isabella Pakszwer che eserciterà su di lui un potere assoluto, soggiogandolo fino alla morte. Nonostante tutto però, sembra che de Chirico avesse istinti omosessuali e cercasse di nasconderli dietro il “dipinto” di una coppia normale che viveva insieme la propria vita. Pakszwer era una prostituta di professione e vedeva in de Chirico il modo di guadagnare soldi. Lo spingeva a creare quadri dai contenti ambigui e “doppi”, perché pensava si potessero vendere più facilmente. Ed effettivamente de Chirico viveva ormai una condizione di doppia personalità che si riversò anche nella sua arte. Da una parte richiamava i suoi antichi “amori”, quindi le architetture, i cavalli, i manichini, dall’altra nasce il pittore di nature morte e di nudi femminili che saranno esposti alla Quadriennale del 1935. De Chirico stava vivendo ormai un periodo davvero buio. I soldi scarseggiavano, la madre ottantenne doveva essere assistita e nonostante il successo acclamato, non aveva accumulato un buon capitale perché tanti quadri furono venduti per pochissimi spiccioli. Partì così per gli Stati Uniti nel 1936 e fu un successo dopo l’altro. Nel Nuovo Mondo era conosciuto da tutti e ricevette commissioni dalla moda, dall’editoria e dalla pubblicità. Tornato in Italia nel 1938, sperimenta una nuova tecnica che utilizzerà per tutte le pitture di soggetto non metafisico: la tecnica a emulsione e vernici che permetteva di dipingere velocemente, anche con pennellate sovrapposte che si asciugavano molto presto. Nasce lo stile definito “barocco” con i ritratti di Edda Mussolini e Galezzo Ciano. Trionferà alla Biennale di Venezia del 1942 che in quell’anno era aperta ai soli paesi dell’Asse.

Nel 1944 ritorna a Roma e ci rimarrà per tutta la vita. Si dedicherà alla stesura della sua autobiografia e subentreranno anche problemi giudiziari con la Galleria il Milione. Quest’ultima possedeva un suo quadro “Piazza d’Italia” del 1933 ma che venne anticipato al 1913. De Chirico lo dichiarò un falso e sarà così confiscata dallo Stato. Da questo episodio, tanti saranno i dubbi su alcuni quadri. Avendo dipinti tante tele di soggetto molto simile, era facile cadere in errore.

L’ultimissima fase della sia vita la passerà chiuso in casa, non parlando con nessuno, se non con fidate persone. Anche le sue opere cambiano registro. La senilità sembra aver colpito anche loro. Il pittore si chiude in un suo mondo fatto di castelli, favole, cavalieri e principesse.

Morirà il 20 novembre 1978. La sua salma si trova nella chiesa di San Francesco a Ripa Grande a Trastevere.


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