Il tema della morte è un tema a cui gli Egizi dedicavano estrema attenzione e la paura nei confronti di questa li portava a tentare di esorcizzarla cercando di rendere il più piacevole possibile il destino nell’Aldilà. Nonostante l’alternanza vita-morte fosse comune sia agli uomini che agli dèi e la morte stessa fosse vista più come l’inizio di una nuova esistenza che come una fine, questa era temuta profondamente e vista con angoscia e la preparazione a questa nuova “fase” pensata con estrema cura.
In un primo tempo, fino alla fine dell’Antico Regno, mentre il destino post-mortem del re era astrale, prima stellare e poi solare, e la costruzione della piramide stessa un modo per permettergli di raggiungere le mete celesti, per gli altri non avveniva l’inserimento nel ciclo cosmico, l’esistenza era concepita solo all’interno della tomba e la sopravvivenza del defunto consentita dalle offerte funerarie deposte con lui dai suoi cari, le quali erano indispensabili per nutrire il suo ka.
Dalla fine del III millennio-inizio del II millennio, invece, anche i comuni mortali, non dotati della natura divina del Faraone, venivano identificati con il dio Osiride stesso, il quale negava la morte con l’inserimento nel ciclo dell’eterno ritorno cosmico. Per il viaggio nell' Aldilà, oltre alle offerte, si procuravano tutti gli oggetti che i defunti avevano utilizzato nella vita terrena.
Secondo le credenze egiziane il corpo era costituito da tre parti: il bai (l'anima), il ka (la forza vitale) e l'aj (la forza divina) e, per avere la vita dopo la morte, il ka, oltre alle offerte alimentari, aveva bisogno del corpo e, per poter conservare degnamente il corpo, si ricorreva alla tecnica della mummificazione che variava a seconda della classe sociale a cui appartenevano i defunti.
Proprio negli ultimi giorni è stato scoperto a sud della piramide di Unas, nella necropoli di Saqqara, un antico laboratorio di mummificazione il quale risale alla XXVI Dinastia Saitica che, nel Periodo Tardo, copre l’arco temporale tra il 664 a.C. e il 525 a.C.
Nel “laboratorio”, sinora, sono stati trovati 5 sarcofagi, 35 mummie, una bara di legno e diversi vasi per gli oli usati nella mummificazione e, oltre a questo è stato riconosciuto un luogo di sepoltura comune con diverse camere funerarie. Il laboratorio, composto da un edificio rettangolare doveva far parte di un complesso funerario con tombe a pozzo e si può notare la presenza di un pozzo di 30 metri che conduce a varie camere funerarie (qui erano riposte le 35 mummie) e di due bacini che si pensa potessero contenere il natron necessario per la mummificazione.
Le analisi e le indagini sui ritrovamenti sono naturalmente in corso ma in cosa consisteva la pratica della mummificazione?
Con il termine di mummificazione si intende il procedimento con cui venivano conservati i corpi. In un primo tempo questo procedimento veniva utilizzato solo per il sovrano ed i suoi familiari ma, più avanti, la pratica venne a diffondersi sempre di più anche nei vari strati sociali.
La tecnica dell’imbalsamazione era particolarmente complessa e i sacerdoti dovevano avere conoscenze di anatomia per asportare gli organi senza danneggiarli: con un ferro lungo e ricurvo veniva estratto il cervello dal naso, per non tagliare il cranio, e poi si incideva un taglio lungo tutto il busto per estrarre gli altri organi; dopo l'estrazione il corpo veniva immerso in acqua salata, il natron, per quaranta giorni circa in modo tale da mummificarlo, l'interno del corpo veniva riempito di oli profumati e di spezie per poi essere avvolto nelle bende, che fungevano da isolante per l'aria. Tra i vari strati di bende i sacerdoti inserivano degli amuleti di protezione, per esempio a forma di scarabeo o di occhio, destinati a vegliare sul defunto preservandolo dai pericoli che lo avrebbero potuto insidiare e accogliere nell'Aldilà.
La mummia veniva posta in un sarcofago, che poteva essere di pietra, di legno semplice o ricoperto di materiali preziosi, prima di forma rettangolare e poi di forma umana e, poiché il defunto doveva essere riconosciuto nell'Aldilà, veniva posta una maschera con un ritratto idealizzato.
Gli organi estratti in precedenza, lavati e imbalsamati, erano deposti in contenitori chiamati vasi canopi con coperchi a forma di teste di uomo, sciacallo, babbuino e falco, le cosiddette divinità figlie di Horo, che avevano il compito di proteggere le viscere dalla decomposizione, mentre sul cuore veniva posto uno scarabeo “del cuore” su cui era incisa una formula di protezione che faceva riferimento alla pesatura del cuore a cui il defunto andava incontro, con l’augurio che il defunto non mentisse davanti agli dèi e che l’anima potesse accedere nell’Aldilà. Davanti ad Osiride e a Toth l’anima faceva la sua confessione a seguito della quale il cuore veniva pesato su una bilancia insieme a una piuma, simbolo della giustizia e di Maat: se il cuore, gravato da mille colpe, pesava più della piuma, il defunto veniva divorato dalla mostruosa dea Ammit e annullato per l’eternità; se il cuore risultava leggero come la piuma, sincero e libero da colpe il defunto poteva entrare nell’Aldilà.
“O cuore di mia madre, o cuore della mia essenza, non testimoniare contro di
me, non rinnegarmi al tribunale. Non contraddirmi davanti ai giudici. Non far
inclinare l’asse dalla mia parte in presenza del guardiano della bilancia. Tu sei
il mio Ka, dimori nel mio corpo, sei congiunto ad esso e rendi forti le mie
membra. Avvicinati al paradiso, conduci là me e te stesso. Non rendere
disgustoso il mio nome al cospetto dei Signori Divini. Sii equo per noi, fatti
ascoltare quando verranno soppesate le parole. Non pronunciare menzogne
contro di me davanti al grande Dio. Di certo sarai innalzato alla vita.”