La storia di cui oggi andiamo a parlare finisce in una sala del piano interrato del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, Roma, e più precisamente all’interno di una teca, luce tenue e umidità e temperatura controllate, al fine di preservarne il contenuto.
Ma quale contenuto?
Quello di una piccola mummia romana (non egizia!) di una bambina di circa 8 anni, alta 1.20 metri, con il corpo imbalsamato e avvolto in bende, secondo una pratica importata dall’Egitto, e la testa lasciata scoperta, risalente alla metà del II sec. d.C.: la cosiddetta “mummia di Grottarossa”.
Nel lontano 1964, il 5 febbraio, durante lavori di scavo effettuati nella località denominata Tomba di Nerone, lungo la Via Cassia e al bivio con Via di Grottarossa, appunto, venne alla luce un sarcofago di marmo, prezioso e di ottima fattura. In un primo momento non venne riconosciuto come tale e venne afferrato, rovesciato, rotto e gettato brutalmente in mezzo alla terra di scarico dalla ruspa e solo in seguito le autorità competenti giunsero in sito, lo riconobbero per ciò che era e lo recuperarono insieme al suo contenuto, ossia la piccola mummia e vari oggetti di corredo a lei appartenuti, tra cui gioielli e manufatti.
Lo splendido sarcofago che si presenta agli occhi delle autorità e che possiamo ammirare oggi al Museo Nazionale è in marmo bianco di Carrara, rettangolare ed è decorato con vari motivi ornamentali tra i quali si staglia una scena di caccia che riprende il famoso episodio narrato da Virgilio nell’Eneide, nel quale una caccia al cervo viene ideata dalla dea Giunone per far nascere il tragico amore tra Enea e Didone ed impedire all’eroe di raggiungere l’Italia e compiere il suo destino. E sul coperchio il rapimento di un leoncino avvolto in un fagotto, il quale simboleggia chiaramente la morte di una giovane sottratta ingiustamente troppo presto ai genitori.
All’interno di questo incredibile sarcofago troviamo la piccola mummia di una bambina con il corpo coperto da bende resinose e il volto lasciato scoperto, il tutto conservato benissimo grazie alla protezione dagli agenti atmosferici e a quella fornita da uno strato di tufo e malta. Il volto venuto alla luce si presentava, dopo il casuale ritrovamento, dai lineamenti belli e delicati, ben rassodato e con un normale colorito chiaro ma bastò una brevissima esposizione alla luce e all’aria per modificarne l’aspetto originale e ridurlo a un ammasso nero, scarnificato e quasi fossilizzato. Rimangono solo le fotografie a testimonianza della sua ottima conservazione nei secoli prima. Il deterioramento probabilmente fu dovuto al fatto che il volto fosse stato coperto durante l’imbalsamazione da una sorta di maschera di funebre, come d’uso presso gli Egizi, una sorta di “maschera” argillosa trattata con un colorante chiaro che la rendesse più simile al colorito umano, e che, venuta a contatto con l’aria, si dissolse.
Questi i motivi del volto quasi essiccato, ma quali invece le cause del decesso di questa piccola bimba, i cui denti, lo stadio di ossificazione delle ossa e i gioielli confermano un’età di 8 anni circa?
Le scansioni della TAC hanno evidenziato la presenza di tutti gli organi (cervello, polmoni, intestino, stomaco…tutti tranne il pancreas), al contrario dell’estrazione tipica della pratica funeraria egiziana in cui gli organi estratti venivano inseriti nei vasi canopi, sono stati trovati segni evidenti di rachitismo osseo, legato a uno stato di malnutrizione e la causa della morte parrebbe una pleurite siero-fibrinosa bilaterale, causata da una tubercolosi.
Dalle analisi, inoltre, la bambina era di razza caucasica, probabilmente originaria dell’Italia centrale o settentrionale (dalla parte della madre), vissuta forse per un certo tempo in Egitto e probabilmente trasportata e imbalsamata a Roma. La pratica di imbalsamazione utilizzata (nessuna asportazione degli organi, trattamento del corpo con sostanze resinose e, in seguito, avvolto in bende di lino ad esclusione della testa) è attestata nel periodo dell’occupazione romana dell’Egitto proprio nel periodo in cui visse la bambina, ma piuttosto inusuale a Roma, le tuniche indossate dalla defunta sono di fattura tipicamente romana, come anche gli oggetti del corredo, i quali ci permettono di datare la tomba tra il 160 e il 180 d.C., e il sarcofago stesso appare romano in tutto e per tutto.
Gioielli in voga a Roma nel periodo, come un anello d’oro con inciso il signum della “Vittoria alata”, un paio di orecchini d’oro a cerchietto liscio e una collana a maglie d’oro con alternati dei zaffiri, una pregiata tunica cinese di lavorazione romana, vasetti di ambra rossa, piccoli amuleti e una bambola di 16 cm circa, dalle fattezze di una donna adulta, in avorio con braccia e gambe articolate, ad accompagnare il viaggio della piccola e giovane defunta…Questi gli oggetti a decorare il corpicino e il sarcofago della bambina, una bambina che doveva probabilmente essere benestante, nonostante la malnutrizione, appartenente a una famiglia romana, forse convertita al culto della dea egizia Iside, deceduta in Egitto e poi trasportata, imbalsamata e posta in un sarcofago in patria.
E forse proprio l’appartenenza della famiglia al culto di Iside è la risposta al perché questa bimba sia stata imbalsamata. Un modo per continuare a farla vivere nell’aldilà secondo l’usanza egiziana.
Un ritrovamento eccezionale in cui si vedono tutto l’amore e la cura mostrati verso questa piccola figlia, segnata da infezioni e carenze nutrizionali ma deceduta per una malattia polmonare, morta troppo giovane, giunta perfetta fino a noi e che è possibile ammirare ancora oggi.
Lei e la sua bambola d’avorio, piccola compagna di viaggio e divinità protettrice per una viaggiatrice ancora più piccola.