Se pensiamo all’arte del periodo ellenistico, un periodo convenzionalmente datato tra il 323 a.C., anno della morte del grande Alessandro Magno, e il 31 a.C., anno della battaglia di Azio con la conseguente caduta dell’ultimo regno ellenistico, non possiamo non pensare a una delle “opere simbolo” di questi anni, ovvero il Gruppo del Laocoonte. E se pensiamo a questo capolavoro, uno fra i tanti, non possiamo non notare quanto, in un periodo stravolto da crisi e cambiamenti, l’arte agisca di conseguenza, creando opere movimentate, tormentate, in cui il chiaroscuro fa da padrone, e vibranti di “pathos”, ossia l’espressione del sentimento. Le premesse poste dagli artisti di IV secolo, come per esempio Lisippo, vengono qui sfruttate e sviluppate ai massimi livelli, ma tra questi precursori della scultura ellenistica ve ne è uno che si è meritato addirittura l’etichetta di “maestro del pathos”.
Il suo nome è Skopas.
Nato a Paro il maestro vive tra il 400 e il 330 a.C., realizza opere prevalentemente in marmo, per lo più andate perdute ma note grazie a copie romane ed è tra i primi scultori antichi a esprimere nelle sue opere le passioni e gli stati d’animo più intensi: le radici del suo stile si trovano nello studio dell’arte classica di Fidia e Policleto e, mentre da un lato, come i suoi contemporanei di IV sec., tipo Prassitele, tende all’innovativa creazione di uno rapporto sempre più stretto tra l’opera e l’osservatore, dall’altro rimane classico nell’evitare ogni rottura con la tradizione.
Ma al contrario di Fidia le opere di Skopas mancano di grandezza, una grandezza che nasceva dalla fiducia nell’umanità e negli dèi, una grandezza che, anzi, soccombe, sommersa dalla tragicità della vita umana, tutta dolore, sofferenza e passioni violente e distruttive.
Questo è Skopas, questo è l’artista che nel periodo ellenistico farà scuola, questo è l’artista la cui esaltazione delle passioni diverrà caratteristica del cosiddetto “barocco pergameno”.
Come in Prassitele la creazione di un’opera che sia tale da coinvolgere lo spettatore è una caratteristica centrale e questo avviene attraverso l’uso del movimento e della torsione del corpo e attraverso una disposizione meno equilibrata e perfetta degli elementi del volto.
Ma in Skopas c’è di più, molto di più, c’è la rappresentazione dei sentimenti dell’uomo dinnanzi alla tragicità della vita, c’è la partecipazione dell’autore, c’è la comprensione di questi sentimenti…il tutto condensato in opere vive e vibranti che sembrano uscire dal marmo ed esprimere esattamente lo smarrimento in cui viviamo.
Qualche esempio?
I frammenti del frontone occidentale del tempio di Atena Alea a Tegea in cui si narra della lotta tra Achille e Telefo, le tre statue collocate nel tempio di Afrodite a Megara, le quali rappresentano i tre diversi aspetti dell’amore, i fregi con scene di combattimento tra Greci e Amazzoni sul lato orientale del Mausoleo di Alicarnasso, una delle Sette Meraviglie del mondo antico, realizzato in onore di Mausolo, satrapo di Caria…
Ma, tra tutte queste, vorrei che vi lasciaste avvolgere dalla splendida e sinuosa Menade di Dresda, una copia romana in forma di statuetta di quella che doveva essere l’originale pensato e creato da Skopas. Il maestro trae qui ispirazione dall’affascinante e conturbante mondo dei cortei dionisiaci di cui fanno parte le menadi, seguaci del dio dell’ebbrezza che danzano e si lasciano avvolgere dall’estasi propria del rito. La figura, nonostante sia senza braccia, viene colta proprio durante la danza rituale, è pervasa dall’agitazione e dalla passione e queste vengono rese in tutta la loro impetuosità dalla torsione compiuta da tutto il corpo che, partendo dalla gamba sinistra, passa per il busto e il collo sino alla testa gettata all’indietro e girata verso sinistra. L’abbandono del corpo alla passione viene inoltre sottolineato dai capelli scomposti e aggrovigliati, una massa che scende come un’onda sulla schiena, e dal lungo chitone che, tenuto da una cintura sopra la vita, si spalanca nel movimento lasciando scoperto il fianco sinistro: proprio i capelli e i panneggi creano un incredibile effetto di chiaroscuro che contrasta con le levigate superfici nude, suggerendo ancora di più l’idea del movimento. Il volto è pieno con tutti i suoi componenti ravvicinati. Gli occhi volti verso l’alto sono schiacciati contro le profonde arcate orbitali al fine di suggerire una maggiore intensità all’espressione e ci sembra di vedere dal vivo la menade mentre nell’estasi segue le sue compagne e il suo dio. Le braccia sono andate perdute ma anche queste dovevano seguire la generale torsione del corpo, con il sinistro sollevato e con un capretto tenuto contro la spalla e il destro teso all’indietro con in mano un coltello.
Skopas, per conferire ulteriore efficacia alle sue figure, non rifinisce mai le sue opere e questo si può ammirare anche nella Menade in cui le parti levigate e quelle ancora grezze giocano sul marmo creando effetti di luce e ombra che esaltano la carica espressiva.
Tutto è movimento, tutto è dinamicità, tutto è passione, tutto è espressività, tutto è tragedia, tutto è vita.
Tutto in un blocco di marmo in cui alberga un’anima che aspetta solo di essere liberata e di esprimersi.
E il suo liberatore è proprio “il maestro del pathos”, Skopas.