I Romani amavano i miti, fonte di ispirazione per le loro vite, e la raffigurazione di alcuni di questi sui sarcofagi dei defunti era un modo per esaltare alcune loro qualità e un augurio di “buna vita”.
Un esempio?
La rappresentazione del mito di Pelope ed Enomao che, in ambito funerario consta al momento solo di cinque esemplari collocabili nel secondo quarto del III sec. d.C., uno dei quali molto interessante e presentante dei volti incompleti.
Un mito non molto fortunato ma…cosa narra?
Secondo la leggenda a Enomao, re dell’Elide e padre di Ippodamia, era stato predetto che sarebbe morto per mano del genero. Per disfarsi allora dei pretendenti della figlia, mise a punto lo stratagemma di sfidarli a una corsa coi carri: risultando sempre il vincitore, grazie ai suoi veloci e imbattibili cavalli, come premio per sé uccideva chi aveva osato sfidarlo.
Pelope, uno dei pretendenti, corruppe l’auriga del re, promettendogli metà della dote o, secondo altre versioni, una notte d’amore con Ippodamia, questi manomise il carro, e il nostro eroe riuscì a battere Enomao che, prima di morire, maledisse la sua stirpe. E la maledizione passò ai figli Tieste e Atreo e quest’ultimo si macchiò dell’abominevole atto di bandire al fratello le carni dei suoi figli.
Una scelta curiosa quella di raffigurare un personaggio niente affatto positivo, progenitore di una famiglia maledetta!
Ma alcuni decisero di utilizzare questo mito nel III sec. d.C., raffigurando, da sinistra verso destra, tre scene: l’arrivo di Pelope, la corsa dei carri e la coppia di sposi di Pelope e Ippodamia, con il giovane come personaggio centrale, il cui volto è quello del defunto a cui appartiene la tomba.
La vicenda viene però scelta come semplice linea guida, da cui poi ci si discosta, prediligendo di sviluppare l’elemento utile ad esaltare il defunto: non si pone, dunque, l’accento sulla morte violenta di Enomao, sull’indole astuta dell’eroe, che ottiene la vittoria con un trucco e che, per questo, viene maledetto, ma si pone l’accento sulle virtù di quest’ultimo e sulla sua vittoria.
Andiamo ora a dare un’occhiata all’interessante esemplare giunto sino a noi in cui, nonostante la rappresentazione appaia assai rovinata, dei volti appaiono non finiti e sbozzati: i volti di Pelope sul carro e di Ippodamia risultano consumati come il resto del sarcofago e al contempo non completamente sviluppati come quelli di altri personaggi, ma in uno stato preparatorio.
L’esemplare appartiene alla fase di maggiore sviluppo del tema di Pelope e Enomao, è datato alla metà del secolo, ed è conservato a Villa Albani, Roma.
Nonostante sia piuttosto rovinato e presenti delle fratture, lo schema è chiaro e i personaggi visibili: a sinistra si riconosce Pelope, col berretto frigio, che entra, accompagnato da un compagno, nel palazzo di Enomao, dove vede il teschio di un pretendente ucciso, mentre il re, circondato da tre accompagnatori, è seduto in trono, accanto a cui vi sono uno scudo, un elmo e due ruote, quelle del suo carro, difficilmente riconoscibili (il tutto ricorda una tipica udienza romana, come il ricevimento di uno straniero da parte di un sovrano); al centro vi è la scena della corsa coi carri dove a sinistra si vede Enomao caduto a terra e che tiene ancora le briglie, mentre a destra vi è Pelope, sul cocchio della sua quadriga, sotto la quale è sdraiata la dea terra, mentre Ippodamia osserva da una loggetta il trionfo (la scena sembra essere quasi diventata la rappresentazione di una corsa dei carri romana nel Circo Massimo con lo scenario del palazzo imperiale sul Palatino); a destra Pelope prende in moglie Ippodamia e i due, rappresentati come una coppia romana di cui vengono celebrate la concordia e la virtus , vengono colti mentre si tengono per mano.
Il mito viene utilizzato come punto di partenza per esprimere concetti cari alla cultura romana e risulta inserito in un contesto sempre tipicamente romano: l’arrivo diventa quello di uno straniero, la corsa coi carri una corsa nel Circo Massimo, il matrimonio tra i protagonisti quello sotto il lume della concordia tra due coniugi romani. Ippodamia è la sposa devota e fedele e Pelope è l’uomo virtuoso e onorevole tipicamente romano.
I defunti si rivedono nella vicenda mitica e, ulteriore passo verso questa direzione, è il voler usare i personaggi come supporti per i loro ritratti, caratteristica tipica, in particolare, dei sarcofagi di III sec. d.C.
Il Pelope della scena centrale presenta un volto sbozzato in cui si vedono il margine dei capelli, gli avvallamenti degli occhi e la linea della bocca, e anche quello di Ippodamia nella scena del matrimonio, nonostante sia danneggiato, risulta abbozzato e non distinguibile nei caratteri.
Il volto di Pelope appare sbozzato per ottenere un ritratto o forse, solo usurato, quello di Ippodamia completamente intonso e pronto per un inserimento che non avvenne mai, come accaduto, invece, per quello del marito Pelope. L’idea generale è che i volti sbozzati dovessero essere di preparazione per i ritratti dei coniugi proprietari della tomba e, in effetti, essendo, per ora, questo un unicum nell’ambito dei sarcofagi con volti non finiti, a dimostrazione della scarsa fortuna del mito, potrebbe essere avvenuta questa incompletezza. Ma, osservando bene, per quale motivo il volto di Pelope nella scena del matrimonio appare con ritratto, mentre quello di Ippodamia, sua compagna, no e neanche quello di Pelope durante la corsa coi carri?
Forse la moglie non si è fatta volutamente rappresentare poiché ancora in vita al momento della morte del marito.
Un caso che è un unicum, difficile da spiegare tanto per l’incompletezza tanto per la scelta di un eroe così negativo, anche se stravolto!