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Il tragico eroe omerico Aiace secondo Exechias, il maestro della tecnica a figure nere


Aiace o meglio Aiace Telamonio.

“Aiace il Grande”, eroe secondo per coraggio e forza solo ad Achille, di cui è cugino.

Ma chi è veramente questa figura massiccia con la pelle dura come quella di un leone, che sconfiggeva i nemici brandendo una scure enorme e un largo scudo bronzeo?

Educato dal centauro Chirone, da Peleo e da Achille stesso, Aiace è il guerriero più valoroso dell’esercito degli Achei guidati da Agamennone nella famosa guerra di Troia narrata da Omero: è da questi che sappiamo che è l’unico degli eroi del poema a non ricorrere mai all’aiuto di una divinità e ad incarnare la virtù della perseveranza e del dovere.

È protagonista di imprese incredibili nel corso della guerra, dimostra il suo coraggio più volte affrontando Ettore in un duello che si protrae per un giorno intero, alla cui fine si stabilisce la parità dei due eroi, uccide molti nemici durante l’incendio delle navi achee e non abbandona i suoi compagni durante l’assenza dal campo di Achille.

Dimostra il suo affetto per il Pelide Achille anche dopo la sua morte per mano di Patroclo, proteggendolo e tenendo con la sua ascia lontani i nemici mentre Odisseo porta via il corpo.

Ed ecco che si arriva alle tragiche fasi finali della vita di questo possente eroe, narrate magistralmente dal tragediografo Sofocle: a seguito della morte di Achille si svolge la contesa delle sue armi tra Aiace e Odisseo, e Agamennone e Menelao decidono di affidarle e Odisseo. Aiace è convinto che spettino a lui di diritto poiché il più simile per forza e, accecato dalla dea Atena, estremamente legata a Odisseo, credendo di infierire sui compagni, massacra buoi e montoni degli Achei. Tornato alfine in sé è pieno di vergogna per questo atto e decide di riscattare il suo onore togliendosi la vita: e così, da solo e lontano dall’accampamento, si dà la morte con la spada di Ettore che il troiano gli aveva dato in dono dopo il loro duello.

Una fine davvero tragica per un eroe tanto valoroso e, vedendo dalle parole di Sofocle quanto Aiace si sia battuto per proteggere il corpo di Achille, non possiamo che tifare per lui nella sua contesa con Odisseo.

Ma oltre a noi anche un celebre pittore e vasaio attivo ad Atene nell’età arcaica, specialmente tra il 550 e il 530 a.C., mostra un’aperta simpatia per lo sfortunato eroe, rendendolo protagonista di due sue incredibili creazioni.

Si tratta di Exechias, un artista che, in un periodo in cui si inizia a sperimentare in ceramica la tecnica a figure rosse, destinata ad avere larga fortuna in seguito, rimane fedele alla tecnica a figure nere, facendole compiere un passo in più e dandole lustro e splendore: proprio per questo viene considerato il maestro e il maggiore esponente di questo stile!

Exechias crea due nuove forme vascolare (il cratere a calice e la coppa ad occhioni), crea composizioni uniche, realizza particolari perfetti, dimostra una perfetta padronanza del disegno e riesce a dare ai propri personaggi la capacità di esprimersi in un periodo in cui non era ancora concesso manifestare l’agitarsi dei sentimenti. E proprio questo è ciò che accade nelle rappresentazioni del nostro Aiace.

Interessato a raffigurazioni legate ai temi della vita e della morte piuttosto che ai dettagli della mitologia, l’artista sceglie di utilizzare i grandi personaggi dell’epos per focalizzarsi sull’introspezione psicologica, sui loro sentimenti, creando delle composizioni drammatiche in cui il mito si mescola a qualcosa di reale. Non ci sono più barriere tra l’eroe e l’osservatore, c’è partecipazione.



Nell’anfora campaniforme dei Musei Vaticani Exechias rappresenta Achille e Aiace in un’attività a cui nessuna delle fonti letterarie giunteci fa cenno ma la cui iconografia diverrà famosa: i due amici sono impegnati nel gioco dei dadi, si concedono il meritato “riposo del guerriero” e nessun eccesso turba la serenità della scena.

In parte armati, con i nomi tracciati accanto, Achille sulla sinistra indossa l’elmetto corinzio e sul suo scudo si staglia una testa di satiro tra un serpente e una pantera, mentre Aiace ha la barba più lunga e il suo scudo mostra un gorgoneion tra due serpenti: seduti su due sgabelli si protendono sul tavolino al centro dove si svolge la partita. Hanno appena lanciato i dadi, gridano il proprio numero (tre e quattro), le parole escono come in un fumetto e noi sappiamo il risultato della partita: le figure realizzate a specchio compiono lo stesso gesto con poche varianti e si appoggiano a due lance che, insieme all’espediente di tracciare i piedi davanti e dietro gli sgabelli, danno un’intuizione di profondità. I corpi esplodono di vitalità, le cosce sono possenti e larghe, ad indicare la forza dei due eroi, il disegno è incredibile e i dettagli tracciati nei capelli, nelle armature e sui mantelli sono minuziosamente incisi.

Questa l’opera che "Eksechìas égraphse ka’ ka pòiese me" ("Exekias mi fece e mi dipinse"), come ci viene ricordato sul labbro dell’anfora!

E dalla tranquillità di questa scena tra i due amici si passa alla drammatica scena del suicidio di Aiace narrata sull’anfora attica nel museo di Boulogne-sur-mer che, non firmata, raffigura la morte di un guerriero che, copertosi di infamia, non potendo sopportare la sua condizione, decide di suicidarsi. Il tema della morte di Aiace è conosciuto ma Exechias è l’unico a raffigurare la lenta preparazione di questa: lo scudo è appoggiato di lato, segno dell’ormai vulnerabilità di Aiace, l’eroe è rannicchiato mentre infigge nel suolo la spada che gli darà la morte, volgendo le spalle all’albero della vita.

Aiace è solo. Il suo volto è solcato dal dolore. Non vi è più la serenità che si trovava durante la partita ai dadi con Achille.

C’è solo il dramma di un eroe beffato dal destino nonostante le sue dimostrazioni di coraggio.

Un eroe che però Exechias ha voluto omaggiare in una delle opere più belle dell’età arcaica.


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