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Emozione Arte

Il pathos, la morte e il valore alla corte di Attalo I. Il Galata suicida e il Galata morente


III sec. a.C.

L’antica Pergamo.

Pieno Ellenismo.

Queste le nostre linee guida che si congiungono nel misterioso e maestoso Donario di Attalo, monumento trionfale purtroppo andato perduto!

Costruito sull’acropoli di Pergamo e forse formato da una base cilindrica su cui, sollevato di 2-3 m, si trovava un gruppo statuario, il Donario celebrava la vittoria del re di Pergamo, Attalo I, sulla tribù celtica dei Galati: il re in persona dichiarò guerra ai Galati rifiutandosi di pagare loro un tributo che tutti gli stati dell’Asia Minore, Pergamo compresa, doveva loro. L’esito fu la vittoria nel 240 a.C. proprio del regno di Pergamo e, per ricordare degnamente l’illustre impresa, Attalo I commissionò il grande monumento, probabilmente decorato con sculture in bronzo. L’identità dell’artista che realizzò l’opera è sconosciuta ma si ritiene si tratti di Epigono, scultore di corte della dinastia dei sovrani di Pergamo.

Ma come era fatto questo Donario, ricordo della grande impresa di Attalo I?

Non lo sappiamo esattamente, non sappiamo neanche quante statue dovessero formare il gruppo statuario, ma quello che è certo è che abbiamo due copie marmoree dell’epoca romana, databili al I sec. a.C., che ci fanno capire la grandezza e la complessità di questa opera, opera in cui contemporaneamente traspaiono l’esaltazione dei vincitori e la drammaticità mista a dignità dei vinti.

Proprio i vinti, gli sconfitti Galati, sono i protagonisti delle sculture, tratteggiati con accenni patetici che ne esaltano la grandezza e, quindi, la portata dell’impresa compiuta da Attalo: non deboli nemici sconfitti con facilità, ma degni avversari dell’ancor più degno regno di Pergamo.

Eccoci allora a Roma, a Palazzo Altemps e ai Musei Capitolini: qui ci attendono il Galata suicida e il Galata morente, copie marmoree di I a.C. di originali bronzei di III a.C. ritrovate nel corso degli scavi di Villa Boncompagni Ludovisi al Quirinale.

Il Galata suicida, noto anche come “Galata Ludovisi” (nel Seicento faceva parte della collezione d’arte del cardinale Lodovico Ludovisi) era probabilmente ospitato negli Horti Sallustiani, sul Quirinale, per celebrare le vittorie in Gallia di Cesare.




Alta 2.11 m la statua raffigura un guerriero celtico, etnicamente caratterizzato, con gli zigomi alti, una capigliatura dalle lunghe ciocche, i baffi e la tipica collana torque al collo, colto nell’atto ultimo del suicidio, mentre sorregge la sposa ormai morente e accasciata al suolo.

Il guerriero è stante, nudo, con solo un mantello che ondeggia dinamicamente sulla schiena e che lascia ammirare la sua possente muscolatura, le gambe divaricate e piantate saldamente al suolo, protese insieme al busto verso destra, mentre la testa è volta fieramente all’indietro, forse verso un immaginario campo di battaglia; il braccio destro sollevato e con i muscoli in tensione regge nella mano una spada corta, molto simile al gladio romano, che il galata sta conficcando tra le clavicole. La punta è già entrata nel corpo e già sappiamo che raggiungerà il cuore, devastandolo e provocando una forte emorragia che culminerà in una veloce morte: un suicidio rapido e istantaneo.

Ma l’occhio dell’osservatore rimane fissato nell’attimo in cui la spada non è ancora penetrata del tutto, l’occhio percorre il corpo del guerriero, la muscolatura scolpita con cura nei minimi dettagli anatomici, il volto straziato girato il cui sguardo fugge verso l’alto. Con la mano sinistra il galata sorregge la moglie morente, esanime, completamente abbandonata sulle ginocchia, ormai a un passo dalla morte.

È la fine di tutto.

Sentiamo la tragedia, la morte che circonda le due figure, sempre più vicina, ma anche il valore e la dignità dei due protagonisti: il guerriero preferisce uccidere la propria compagna e dare la morte a se stesso piuttosto che cadere prigioniero degli odiati nemici.

Prende la sua ultima decisione, con coscienza e coraggio. L’eroismo è tangibile, la scuola di Pergamo celebra il valore dei nemici vinti, degni avversari, e al contempo anche il proprio.

Ma protagonisti rimangono i vinti e insieme all’eroismo il pathos e la tragicità del momento irrompono con forza.

Era forse questa statua al centro del donario, perfetta, realistica, padrona dello spazio circostante e realizzata per essere apprezzata da tutti i punti di vista!

Ma non unica nella sua perfezione e tragicità, nonché nel suo realismo, perché anche il Galata morente, scoperto nel XVII sec. e ripreso da molti artisti di epoche successive, affronta gli stessi temi e ci lascia a bocca aperta per la sua intensità.


Nuovamente con la collana torque, i baffi e i capelli ispidi e dalle grandi ciocche, gli zigomi alti, qui è un unico guerriero galata il protagonista della scena.

Completamente nudo è semisdraiato su un plinto ovale su cui compaiono una spada, un fodero, una cintura con fibbia squadrata e due corni; la gamba sinistra è leggermente allungata mentre quella destra è flessa; solo il braccio destro permette all’uomo e alla scultura di reggersi in equilibrio, mentre quello sinistro è piegato e la mano poggia sulla coscia destra; il torso ruota verso destra, cercando un maggiore appoggio piegandosi verso il braccio destro; la testa è piegata pietosamente verso il basso, in segno di rassegnazione e resa, l’espressione è sofferente, le sopracciglia aggrottate ma la dignità rimane.

Il guerriero attende coraggiosamente la morte. Una ferita mortale è nella parte bassa del petto, il polmone e il cuore sono stati colpiti dal fendente, la fine è vicina.

Vi è sofferenza ma la morte viene affrontata col coraggio e la dignità di un guerriero sconfitto ma non piegato.

È la fine di tutto ma è anche la fine di un popolo che fino all’ultimo ha lottato per la propria indipendenza e che è morto con onore.


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