Dirce e il suo supplizio.
Un mito raro già nell’antichità e quasi sconosciuto oggi, se non fosse per una certa opera conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Un mito tragico, messo in disparte e rappresentato forse per la prima volta nel 410 a.C. dal tragediografo greco Euripide.
La storia parte da una delle molteplici scappatelle del padre degli dèi, Zeus. Trasformatosi in satiro seduce la giovane e bellissima Antiope, figlia del re della Beozia, Nitteo, questa rimane incinta e il padre, pieno di vergogna, la caccia dal suo regno. La povera fanciulla partorisce in una landa deserta due gemelli, Anfione e Zeto, e li affida a un pastore. Ma la pace di Antiope dura poco e suo zio Lico, re di Tebe, invade Sicione, uccide il fratello e prende la nipote come schiava.
Per 20 anni la donna subisce angherie inimmaginabili da parte di Lico e soprattutto della moglie di lui, Dirce, invidiosa della sua bellezza. Fino a che Zeus si ricorda di lei e decide di intervenire per aiutarla a fuggire: inseguita, cerca rifugio sul monte Citerone, qui incontra due giovani e li supplica di proteggerla.
E chi sono questi se non i suoi figli Anfione, riflessivo e dedito alla musica, e Zeto, passionale e uomo d’azione?!
Ma sopraggiunge Dirce, a capo di un gruppo di Menadi, alla ricerca della sua schiava e, presa da frenesia dionisiaca, ordina ai due fratelli di legare Antiope ad un toro per farla trascinare fino al sopraggiungere della morte. Tutto sembrerebbe precipitare ma l’arrivo del pastore che ha allevato i gemelli svela la loro origine. La furia si scatena e la pena viene inflitta a Dirce per farle scontare tutti i soprusi fatti ad Antiope. Arriva anche Lico ma un intervento di Ermes porta la pace, la sua abdicazione in favore di Anfione e il riconoscimento dei due fratelli come figli a tutti gli effetti di Zeus.
Dirce, dilaniata orribilmente e colpevole di tante atrocità, viene seppellita solennemente diventando una ninfa fluviale mentre, secondo un’altra versione, viene trasformata in fonte da un impietosito Dioniso.
Questa la vicenda, questo il mito.
Non molto conosciuto, è vero, ma protagonista della più grande scultura dell’antichità mai ritrovata!
Si chiama il Supplizio di Dirce, più conosciuta come il “Toro Farnese” ed è conservata a Napoli.
Venne ritrovata nel 1545 nelle Terme di Caracalla durante gli scavi commissionati da papa Paolo III per recuperare statue da porre nel suo palazzo Farnese ma, a differenza dell’Ercole Farnese proveniente dallo stesso scavo, l’unico riferimento a questo gruppo fu in un’unica incisione. Rimasta a decorare palazzo Farnese fu prima ereditata da Carlo di Borbone, figlio dell’ultima discendente della famiglia, Elisabetta, e poi trasferita a Napoli per volontà di Ferdinando IV di Borbone nel 1788, prima usata come fontana nella villa reale e poi nel museo archeologico nel 1826, dove rimane oggi.
Opera affascinante, nel XVIII sec., con il sopraggiungere del gusto classicistico, venne guardata con un certo disprezzo poiché considerata figlia della tarda arte greca, successiva al fiorente e apprezzato periodo classico di V sec. a.C. Nel XIX sec. venne rivalutata nella sua drammaticità di opera ellenistica.
Ma quando venne realizzata?
Non lo sappiamo esattamente. In un primo momento si pensò fosse una delle due versioni di cui parla Plinio il Vecchio, commissionate nel 160 a.C. a Pergamo, una delle quali realizzata dai fratelli Apollonio e Taurisco di Tralle per l’isola di Rodi e poi trasferita a Roma per arricchire la collezione di Asinio Pollione. Ma secondo un’ipotesi più recente la scultura descritta da Plinio non sarebbe il Toro Farnese: questa sarebbe una statua appositamente commissionata per le Terme di Caracalla, scolpita nel III sec. d.C. e nata come una fontana!
Scolpita in un unico blocco di marmo, pesante 24 tonnellate e alta quasi 4 m, rappresenta il momento esatto in cui Dirce viene legata al toro dai due gemelli, lei con gli occhi terrorizzati e supplicanti, loro con i muscoli tesi e lo sguardo concentrato e deciso, la madre Antiope in piedi e testimone dell’orrore che si sta svolgendo: i personaggi sembrano voler uscire dal marmo, prendere con forza il loro spazio, muoversi in una struttura complicatissima.
A sinistra il forte Zeto, con una spada al fianco destro, doma con la corda il toro che si impenna, legandola al contempo e bruscamente ai capelli di Dirce, piegata all’indietro e terrorizzata; a destra il meditabondo Anfione, caratterizzato dalla lira appoggiata a un tronco d’albero, è impegnato nel trattenere e guidare il toro imbestialito, mentre Dirce leva le mani verso di lui supplicandolo; Dirce indossa una pelle di capra, la veste ricade su un cesta cinta di edera mentre alle sue spalle giace un tirso spezzato; Antiope originariamente reggeva un tirso nella mano sinistra e assiste in piedi nell’angolo posteriore della base.
Una piccola figurina con una corona di pini e una ghirlanda d’edera, personificazione della natura bucolica, un cane ritto sulle zampe sul lato anteriore e un fregio di animali nella parte posteriore del basamento roccioso ci introducono sul monte Citerone, luogo dell’azione e scenario di molti miti cruenti, disseminato di riferimenti dionisiaci.
Lo spettatore, girando attorno al gruppo, segue con avidità e terrore l’azione che si svolge davanti ai suoi occhi fino ad arrivare alla minaccia degli zoccoli del toro che sembra scagliarsi sull’inerme osservatore. Il dramma di Dirce è lo stesso di chi guarda, la paura della prima è la stessa del secondo.
La realtà dell’opera si sovrappone a quella dello spettatore, il coinvolgimento è totale.
Con estremo realismo si svolge davanti ai nostri occhi una tragedia che noi non possiamo fare altro che contemplare con orrore, consci della terribile conclusione.