“Se comincio con la storia della mia vita non sono mosso da vanità, ma dal desiderio di mettere in chiaro che tutto il lavoro degli anni successivi fu determinato dalle impressioni della mia primissima infanzia, e che anzi esse ne furono la conseguenza necessaria; si potrebbe dire che il piccone e la pala per gli scavi di Troia e delle tombe regali di Micene furono già forgiati e affilati nel piccolo villaggio tedesco dove ho passato otto anni della mia prima giovinezza.”
Così Heinrich Schliemann parla della propria passione fin da bambino. La passione che lo ha portato alla scoperta della mitica Troia descritta da Omero e a quella di tesori inimmaginabili a Micene “ricca d’oro”, come viene definita nei poemi omerici.
Fu il padre a trasmettere al piccolo Heinrich l’amore per le antiche civiltà, leggendogli i versi di Omero e facendolo passeggiare con la mente per le strade di Troia insieme agli eroici protagonisti delle vicende qui avvenute. Una Troia fino ad allora ritenuta solo una fantasia ma che il bambino ritenne sempre reale.
Heinrich trovò la sua strada fin dalla tenera età: ritrovare la mitica Troia ed esplorare le città attraversate dagli eroi.
E lo fece.
Ma mettiamo da parte Troia e andiamo agli anni 1874-1876, “nella vallata d’Argo che nutre cavalli”, a Micene.
Qui le rovine sono visibili, testimoniano il ricco splendore della città e, davanti agli occhi increduli e ancora di bambino di Heinrich Schliemann, si stagliava la cosiddetta Porta dei Leoni, entrata monumentale della rocca, mai sepolta, una “X” ad indicare il luogo dei resti di Micene.
Prima di proseguire sulla rocca e nella necropoli fermiamoci ad ammirare ciò che vide l’archeologo tedesco e ciò che ancora c’è oggi. La porta era l’accesso principale alla città, parte del sistema di fortificazioni delle mura ciclopiche, considerata il primo esempio di scultura monumentale europea.
Costruita nel 1300-1250 a.C. circa e larga 3 m è visibile fin dall’antichità, come risulta dalla descrizione di Pausania, e subì più restauri, uno dei quali proprio nel 1876 condotto dallo stesso Schliemann. Entrata di una possente cerchia di mura megalitiche che difendevano la città è costituita da due pilastri, soglia e architrave: sopra la struttura trilitica dell’architrave, la quale scarica il proprio peso sui due lati delle colonne d'ingresso, si staglia un triangolo di scarico, di pietra e decorato, alto 2.90 m, il cui soggetto deve il nome alla porta stessa. Nella composizione si individuano due leoni araldici privi di testa, o meglio due leonesse, in quanto assenti tracce di criniere, in piedi sulle zampe posteriori e con quelle anteriori che poggiano su due altari centrali, le quali dovevano volgere il loro sguardo verso l’esterno; tra queste una colonna di struttura architettonica minoica che ricorda molto quelle presenti nel palazzo di Cnosso a Creta e che fa pensare a uno stretto contatto tra le due contemporanee civiltà, inizialmente avvenuto grazie a scambi commerciali e che in seguito portò all’integrazione delle due.
Il significato di questo rilievo? L’ipotesi più accreditata vede in questo la rappresentazione della potenza dei sovrani micenei e la volontà di impressionare il visitatore che arrivava in città simboleggiando forza e prestigio: ecco il perché di due possenti leonesse, segno del potere regale, rampanti e simmetriche, aggressive e prive di paura proprio come gli abitanti della città che custodiscono.
Schliemann entrò per questa porta e, seguendo le indicazioni di Pausania, visitatore del luogo, pensò vi potessero essere delle tombe regali proprio all’interno della cinta muraria.
E in effetti aveva ragione.
Riportò alla luce una serie di tombe a pozzo e a cupola attribuendole a quelle degli eroi delle sue storie di bambino, ai membri della dinastia degli Atridi, sovrani di Micene. Agamennone, Cassandra e Eurimedonte, uccisi da Clitemnestra e dal suo amante Egisto…scheletri con tracce di combustione frettolosa. Ma non solo corpi bensì anche ricchi corredi costituiti da armi, utensili, gioielli, tutti appartenenti a una stirpe reale e…incredibili e preziosissime maschere d’oro!
E tra queste Heinrich credette di aver trovato quella che ricopriva il leggendario volto del re Agamennone!
La maschera, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Atene, è costituita da una lamina d’oro con dettagli a sbalzo, presenta due fori vicino alle orecchie che indicano come questa venisse fermata sul volto del defunto per mezzo di una cordicella, raffigura il volto di un uomo barbato e proviene dalla tomba V. Il viso non è realistico ma dai lineamenti schematici, con occhi che sembrano mandorle e orecchie schiacciate sul piano. I particolari, però, sono realistici, come i baffi lunghi e arricciati all’insù e i peli irregolari di cui è composta la barba, estremamente dettagliata; sopracciglia marcate, naso lungo e stretto, bocca larga e dalle labbra sottili, occhi chiusi…il sovrano sembra dormire un sonno sereno, il sonno di qualcuno che ha compiuto tutto nella maniera giusta. La maschera rende costui immortale.
Ma si tratta veramente del mitico Agamennone?
Sembra proprio di no. La maschera risalirebbe al 1550-1500 a.C., un periodo di molto anteriore a quello in cui sarebbe vissuto il leggendario “signore di eserciti”.
Schliemann continuò a sostenere di aver trovato Agamennone, ma altri misero in dubbio persino l’originalità di questo manufatto, troppo perfetto in confronto ad altre maschere trovate in loco e con dei baffi molto simili alla moda del 1800.
Un falso realizzato da questo improvvisato e fissato archeologo o un autentico e meraviglioso reperto?
Un mistero creato dall’uomo che guardò fisso negli occhi di Agamennone.