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Tra statue votive, kouroi ormai sorpassati e ''sorrisi arcaici''.Il Moskophoros e il


Grecia, VI sec. a.C., età arcaica. Il momento dei kouroi, le statue maschili stanti, idealizzate e immutabili, con le braccia stese lungo i fianchi. Ma non poi così immutabili…perché un cambiamento e un’evoluzione sono nell’aria, ed è proprio ad Atene, sulla meravigliosa Acropoli che si erge imponente, che assistiamo a un qualcosa che cambierà il modo di concepire la figura nello spazio, il primo passo verso la conquista vera e propria dello spazio stesso. 566 a.C. La festa delle Panatenee, una celebrazione in onore della dea Atena, viene riorganizzata e poco dopo compare la prima di una lunga serie di sculture dedicate sull’Acropoli: sono statue votive, per ringraziare la divinità e per ricordarle di vegliare sul fedele. Quest’anno segna l’inizio delle sculture di questo tipo, sculture preziose per la divinità e i committenti stessi ma destinate a finire nella cosiddetta “colmata persiana”, il terrapieno in cui finiranno tutti i resti delle opere e dei monumenti distrutti dai Persiani nel 480 a.C. durante le terribili Guerre Persiane. Ed è infatti tra le macerie della colmata che, durante gli scavi a sud-est dell’Acropoli nel 1863, emergono, in particolare, due opere che da un lato mostrano una vera e propria rottura rispetto alle sculture precedenti e dall’altro sia la devozione verso la divinità sia il desiderio di esaltare se stessi. Andiamo a conoscerle. La prima ha il nome di Moskophoros, ossia “portatore di vitello”, è in marmo dell’Imetto, alta 1.65 m, conservata al Museo dell’Acropoli ed è la prima scultura dedicata sull’Acropoli di Atene: risalente a poco dopo la riorganizzazione delle Panatenee apre la strada alla consuetudine di dedicare statue votive nel principale santuario della città! Un ruolo non indifferente per questa statua la quale, come dice il nome, raffigura un uomo, forse l’offerente stesso, mentre porta sulle spalle un vitello. E, grazie a un’iscrizione sul basamento, sappiamo persino il nome di costui: si chiamava Rhombos, figlio di Palos, e, secondo l’interpretazione corrente, era un privato che, dopo aver vinto un ricchissimo premio, forse lo stesso vitello che viene orgogliosamente portato sulle spalle, durante le Panatenee in onore di Atena, aveva deciso di dedicare una statua di ringraziamento alla dea. Oppure aveva deciso di sacrificarlo alla divinità.



Sacrificio puramente simbolico o reale il gruppo di Rhombos funziona! L’impostazione è frontale, l’uomo incede con passo deciso e guarda fisso davanti a sé l’osservatore, il corpo robusto è fasciato da un mantello attillato che delinea con chiarezza la figura senza nasconderne i muscoli. I dettagli anatomici, dagli addominali ben definiti all’ombelico, sono tracciati accuratamente non tramite l’incisione ma tramite la giustapposizione dei volumi. Per la prima volta le braccia non cadono dritte lungo i fianchi ma sono sollevate nello sforzo di tenere il vitello per le zampe sulle spalle, con il risultato che nella figura si venga a creare un chiasmo, una X (braccia-zampe): il corpo comincia a prendere il suo spazio, la gamba destra incede, le braccia sono sollevate, la ricerca realistica è più presente. Alla solidità dorica della figura si mescola la grazia ionica del volto e della ricca capigliatura del protagonista: gli occhi intarsiati, il “sorriso arcaico” che crea un arrotondamento degli occhi e della bocca, i capelli che scendono in eleganti trecce a perline. L’uomo sembra iniziare a muoversi sotto i nostri occhi, il volto è mobile, il corpo incede per offrire il vitello ad Atena, la realtà irrompe nel gruppo attraverso l’elemento dell’animale…il kouros sembra ormai lontano! E la stessa cosa accade nel cosiddetto “Cavaliere Rampin”! Più giovane di una decina di anni (550 a.C. circa) viene ricostruito accostando la testa ritrovata sull’Acropoli nel 1877, acquistata da un omonimo diplomatico francese e donata al Louvre, e il corpo di cavallo e cavaliere ritrovati una decina di anni dopo: l’unione avviene solo nel 1963 ad opera di Humphry Paine. In marmo e alta 1.23 m costituisce l’unico esemplare conservato di scultura equestre dell’arte greca arcaica!


Importanza di non poco conto anche per questo gruppo che raffigura, secondo le varie interpretazioni, o il vincitore di una gara equestre (come fa pensare la corona che cinge la testa, tipica dei giochi di Nemea) o uno dei due figli di Pisistrato, celebrato sempre dopo una vittoria agonistica. In ogni caso il nostro giovane aristocratico viene rappresentato in nudità eroica, spalle larghe, ampio torso, pettorale e addome ben evidenziati, vita alta e stretta che ricorda i “vecchi” kouroi. Il volto, leggermente girato verso la spalla sinistra, è uno dei primi esperimenti di ritratto, anche se idealizzato e non realistico: gli occhi sono allungati e a mandorla, il “sorriso arcaico” accentua gli zigomi e sblocca la rigidità della figura, la barba è tracciata elegantemente, il capo cinto da una corona di quercia è coperto da una capigliatura stilizzata con riccioli a chiocciola disposti sulla fronte e trecce a perline che scendono dietro le orecchie…è l’aristocratico ad emergere, è il bello! E il cavallo su cui avanza la figura colloca l’uomo in uno spazio reale, non ideale, si parla di un’azione anche se ancora non si svolge appieno. Sono queste tutte premesse che porteranno alla conquista della tridimensionalità, della coscienza dello spazio, della volontà di muoversi in questo e dominarlo. Il tutto sotto gli occhi degli dèi.

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