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Un mito, due pitture e due diverse culture. Il Teseo liberatore

Di Silvia Urtone



Teseo e il Minotauro.

È un mito che nell’antichità è stato spesso rappresentato, prima fra tutte la scena della vittoria dell’eroe ateniese sul mostro dalla testa di toro.

Il Minotauro, secondo la leggenda, era figlio del toro di Creta e di Pasifae, regina di Creta e moglie di Minosse. Minosse non era ben visto dalla popolazione cretese, poiché figlio di Zeus e non del re precedente e, per mostrare ai sudditi il favore degli dèi nei suoi confronti, pregò il dio Poseidone di inviargli un toro, promettendoglielo in sacrificio. Il dio del mare acconsentì e mandò un toro bianco così bello che il re decise di tenerlo per sé, sacrificandone un altro al suo posto. Poseidone si adirò e, per punirlo, fece innamorare la regina Pasifae del toro stesso e, con uno stratagemma inventato dal saggio Dedalo, riuscì a unirsi a questo, generando il mostruoso Minotauro, un essere con il corpo di uomo e la testa di toro: la natura ferina aveva il sopravvento su quella umana e così il mostro venne rinchiuso nel Labirinto di Cnosso ideato sempre dall’inventore Dedalo.

Dopo l’uccisione da parte degli ateniesi del figlio di Minosse, il re decise di punire la città sottomessa con il tributo di 7 fanciulli e 7 fanciulle da sacrificare ogni anno al Minotauro e…arriviamo così a Teseo, figlio del re ateniese Egeo, il quale si offrì di far parte dei sacrifici per sconfiggere il mostro!

E ci riuscì. Lo uccise con la spada, liberò i fanciulli e riuscì ad uscire dal Labirinto, grazie all’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, e del suo celebre filo.

Questa la parte del mito che ci interessa, tralasciando la tragica morte di Egeo e il tragico abbandono di Arianna, questa la parte che durante l’Ellenismo e l’età di Alessandro Magno venne raffigurata in alcuni splendidi affreschi.

Ma oggi questi non rimangono purtroppo.

Gli affreschi dei grandi pittori greci del IV-III sec. a.C. sono ormai perduti e quello che resta sono delle copie più o meno fedeli, modificate secondo il gusto romano dell’epoca, un’epoca decisamente posteriore a quella degli originali, il I sec. d.C.

Due le pitture che andiamo ad esplorare, entrambe in Campania, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, entrambe rappresentanti lo stesso momento, ma con caratteri ben diversi.

In tutte e due il momento scelto dall’artista non è quello centrale del mito, bensì il “dopo”: la sconfitta del Minotauro da parte di Teseo è già avvenuta, Teseo è già un vincitore, il mostro è già stramazzato morto al suolo, i giovani ateniesi sono già stati liberati.

Tutto è già successo.

La prima pittura proviene dalla Basilica di Ercolano ed è frutto di una committenza pubblica: le dimensioni sono notevoli (h 1.90 m) ed è opera di un decoratore abile che si è in parte ispirato all’originale pittorico.

Al centro si staglia, grande e simile a una statua, il protagonista Teseo (un Augusto vincitore?), con il corpo che riprende il modello lisippeo, dalle forme snelle e longilinee e la testa più piccola, nudo e stante, consapevole dell’impresa compiuta e con lo sguardo volto bruscamente e fisso verso un punto lontano. Attorno i fanciulli ateniesi appena salvati festeggiano l’eroe, uno gli bacia la mano destra, uno gli abbraccia la gamba sinistra, altri esultano sulla destra, davanti alle mura del Labirinto. A sinistra giace, quasi invisibile, il grande corpo del Minotauro, ancora spaventoso ma ormai senza vita. Sullo sfondo mura e rocce su cui siedono figure femminili.



La seconda pittura proviene dalla Casa di Gavio Rufo a Pompei, è frutto di una committenza privata e deriva a grandi linee dallo stesso modello ma con risultati decisamente diversi.

Di dimensioni di gran lunga minori (h 90 cm), la scena e i protagonisti sono gli stessi ma Teseo, anche se sempre in posizione centrale, appare con un corpo disorganico e un’espressione così stupita che è molto lontano dal sembrare un eroe, gli atteggiamenti di gratitudine dei due fanciulli che baciano e si aggrappano al loro salvatore sono volutamente esagerati ed estremamente goffi, il gruppo a destra mostra sempre stupore e non gioia e sembra quasi un “gruppo in gita scolastica” (come saggiamente detto dallo studioso Ranuccio Bianchi Bandinelli), e il fondale è un semplice muro cittadino in cui si apre una porta da cui fuoriesce in un infelice tre quarti il corpo senza vita del Minotauro, piccolo e con le braccia incrociate, il quale fa più pietà che spavento.


Due rappresentazioni estremamente diverse, animate da un clima completamente differente.

Da un lato una pittura ricca di chiaroscuri, che trasmette perfettamente allo spettatore lo spirito e la poeticità del mito, con un eroe degno di questo nome che è abbagliato dal successo della sua impresa tanto da non prestare attenzione a chi ha salvato o al mostro appena ucciso, spaventoso ma innocuo.

Dall’altro una scena che illustra quasi un semplice fatto di cronaca, privo di qualunque poeticità o della magica atmosfera del mito, una scena ricca di errori, di anatomie volgari e grossolane, con un mostro che fa solo pietà e un eroe che appare poco credibile, una scena in cui prevale un linguaggio quotidiano.

Cosa mai è accaduto?

Ebbene sono frutto di due culture diverse.

La prima, realizzata con maggiore perizia e bravura, si ispira, anche se non completamente, a un modello greco e appartiene alla cultura ellenistico-romana, più adatta a un edificio pubblico come una Basilica. La seconda è opera di un semplice artigiano che riproduce per un cliente con poche pretese il celebre originale, e appartiene alla cultura romano-campana.

Una punta a una rappresentazione più fedele del mito, cercando di preservarne l’atmosfera, l’altra preferisce il linguaggio familiare e quotidiano.

Un unico mito, un’impostazione simile ma due culture estremamente diverse.

Questa la bellezza della pittura romana che, per quanto si ispiri all’arte greca, la stravolge creando qualcosa di unico e nuovo.

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