Un bel po’ di articoli fa abbiamo incontrato le figure di Atena, Marsia e Apollo.
I tre sono legati a un mito che, come molti in effetti, ha un tragico finale: oggi andiamo a incontrarli nuovamente scoprendo qualcosina in più e guardandoli da un altro punto di vista.
La saggia dea Atena, saggezza fatta divinità, aveva creato dal nulla l’aulos, il flauto, ma notò che, nonostante questa fosse una bellissima invenzione, le deformava troppo le guance suonandolo. Lo gettò via furibonda e giunse il selvaggio sileno Marsia, il quale rimase affascinato dallo strumento e iniziò a suonarlo in maniera così deliziosa da essere celebrato dalle folle come più bravo persino del dio della musica Apollo!
Marsia non smentì ciò ma anzi era pieno di orgoglio…fino a che la voce non giunse alle orecchie dello stesso dio.
Gli dèi della mitologia greca, si sa, sono terribilmente vendicativi e pieni di sé e Apollo sfidò il superbo Marsia: il vincitore della contesa sarebbe stato scelto dalle Muse e avrebbe fatto dello sconfitto tutto ciò che avesse voluto. Al termine della gara si era in una situazione di parità ma Apollo non era soddisfatto e sfidò il sileno a suonare lo strumento capovolgendolo: il dio riuscì a fare ciò con la sua cetra ma Marsia non poté fare lo stesso con il flauto.
Il vincitore risultò ovviamente Apollo e la punizione che egli scelse per la hýbris del sileno fu terribile: Marsia venne legato a un albero e scorticato vivo.
Ora, questa storia è stata raccontata per esempio nel V sec. a.C. dall’artista Mirone, il quale aveva realizzato un bellissimo gruppo che coglieva l’incontro fatale tra Atena e Marsia, fatale per tutto quello che ne sarebbe derivato per l’orgoglioso e curioso sileno. Qui da padrone faceva il movimento che spingeva le due figure protagoniste ad allontanarsi dal centro della composizione in cui veniva a trovarsi l’oggetto della contesa: la tragedia si sta preparando, ci sono tutti i presupposti ma ancora manca il finale.
Questo finale viene narrato in un gruppo che appartiene al periodo ellenistico, un paio di secoli dopo, probabilmente tra il III e il II sec. a.C.
L’originale non ci è purtroppo giunto ma, per fortuna, ad esserci pervenute sono molte copie romane: le figure interessate sono completamente staccate tra di loro ma il loro collegamento è ben testimoniato da rilievi e monete. Tra le tante riproduzioni fatte (circa 60), segno della fama di questo mito, quelle di cui oggi ci occupiamo provengono da due luoghi diversi e solo in un secondo momento ci si è resi conto della loro connessione: uno è il Marsia del Museo del Louvre e l’altro è il cosiddetto “arrotino” del Museo degli Uffizi e, sì, sono due parti di un gruppo in cui probabilmente doveva esserci anche il dio Apollo.
Qui la tragedia è in pieno svolgimento e tutta la drammaticità, carattere fondamentale e diffuso delle opere del periodo ellenistico, scaturisce direttamente dalle figure scolpite nel marmo e realizzate nel I-II sec. d.C.
Marsia è in marmo pentelico, è appeso per i polsi a un albero e pende inerte, ormai rassegnato alla sua punizione, con i muscoli allungati verticalmente: è completamente abbandonato e solo il volto si contorce in una smorfia terribile e dolorosa mentre osserva impotente alla preparazione del supplizio pensato dal dio Apollo.
Questa è la copia meglio conservata del cosiddetto Marsia bianco simmetrico, opposto a quello rosso asimmetrico, costruito intorno a un asse simmetrico che passa attraverso il naso del sileno. Tutto è bilanciato e risulta piuttosto statico, Marsia ha rinunciato a ribellarsi e attende…le mani sono completamente abbandonate, il corpo sospeso e passivo, quello di una creatura che ha ormai accettato la propria sorte. Solo il volto mostra preoccupazione e ancora qualche forma di emozione, ma sempre controllata, le sopracciglia non troppo corrucciate, la bocca chiusa, la capigliatura non così scomposta. Marsia accetta il suo destino, è inutile tentare di salvarsi, tutto è già deciso, lui ha sbagliato e perso, la morte si avvicina e l’unica è mostrarsi arresi e col capo chino, volto tristemente verso la figura ai suoi piedi, fonte di tormento.
Dal basso, infatti, alza lo sguardo verso il sileno uno scita in marmo bianco, noto come “l’arrotino”, il quale, in ginocchio, è intento ad affilare il coltello con cui scuoierà vivo Marsia per ordine del dio Apollo. La figura è completamente nuda, a parte un mantello poggiato sulle spalle, e guarda la propria vittima senza smettere di limare la sua arma.
Insieme alle due figure doveva esserci, secondo la critica, anche Apollo stesso, vincitore della contesa, pronto a godersi lo spettacolo.
Ma il gruppo raccontava solo un mito? In realtà non è detto.
Recentemente è stata fatta la proposta che, oltre a un significato mitologico, questo fosse stato creato anche per ricordare un momento storico preciso, ossia la rivolta di Acheo contro Antioco III, preso poi prigioniero a Sardi nel 213 a.C. e sottoposto dal vincitore a un supplizio terribile.
L’ipotesi appare particolarmente suggestiva anche perché, da un lato, il mito di Marsia si svolgeva proprio in questa regione e, dall’altro, Antioco III considerava Apollo il suo dio protettore.
Un monito sia per le divinità minori che per i mortali a non compiere alcun tentativo di sovversione: è questo che lo sfortunato Marsia ci dice e ci dona prima di venire orribilmente scuoiato.
Di Silvia Urtone
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