Di Silvia Urtone
Lì, all’imbocco della Via Sacra nel Foro Romano, sulle pendici settentrionali del colle Palatino, si staglia immutabile il più antico arco conservato entro le mura di Roma.
Lì c’è l’Arco di Tito, capolavoro e simbolo della dinastia Flavia, protagonista di grandi innovazioni in campo architettonico e artistico (basti pensare al vicinissimo Anfiteatro Flavio, più conosciuto come Colosseo, visibile dall’arco di uno dei imperatori a contribuire alla sua nascita).
Tito riuscì a regnare solo per due anni dal 79 all’81 d.C. ma l’arco eretto in suo onore dal Senato e dal fratello che gli succedette, Domiziano, resta a testimoniare le sue grandi imprese in campo militare, imprese che gli avevano consentito di ascendere ed elevarsi in un’apoteosi vera e propria.
Nel 69 d.C. Vespasiano e il figlio Tito erano in Giudea e, mentre il padre fece ritorno a Roma per reclamare il trono, il figlio rimase a porre fine alla rivolta, la quale fu del tutto sedata l’anno successivo con conseguenti saccheggio di Gerusalemme, distruzione del tempio, bottini e l’uccisione di gran parte della popolazione. Tito tornò a Roma nel 71 e venne accolto dal trionfo, un trionfo che lo accompagnò fino all’erezione dell’arco in suo onore, realizzato postumo.
Il Senato e il fratello avevano voluto celebrare e ricordare il loro imperatore vittorioso, ormai asceso e divus ed è proprio in questi termini che a lui si rivolgono nell’iscrizione leggibile ancora oggi sull’attico verso il Foro: “Il senato e il popolo romano al Divo Tito Vespasiano Augusto, figlio del Divo Vespasiano.”
Ma le vicende dell’arco trionfale non finirono nell’anno del suo completamento (circa il 90 d.C.) ma proseguirono nel corso dei secoli.
Nel Medioevo questo venne incorporato nella fortezza dei Frangipane e solo a partire dal XVI sec., grazie all’opera di Paolo II e Sisto IV, i primi restauri vennero effettuati; in seguito l’arco fu inglobato nelle strutture del convento di Santa Francesca Romana e a partire dal 1812 venne liberato e restaurato per mano di Giuseppe Valadier; l’abbassamento del livello stradale portò alla messa on luce delle sue fondazioni e oggi è ancora lì a dominare l’imbocco del Foro Romano!
Ma guardiamo più da vicino l’Arco di Tito, molto più compatto e robusto di quelli di epoca augustea più vicini ai modelli ellenistici e primo esempio a Roma dell’uso dell’ordine composito, dai capitelli in cui si mescolano ordine dorico e corinzio. Costruito in vari materiali, è a un solo fornice (una sola arcata), inquadrato da semicolonne che sorreggono una trabeazione con fregio, esempio incredibile nelle sue decorazioni dell’affermarsi di una nuova concezione artistica.
Nel fregio sulla trabeazione, secondo uno stile tipicamente romano, con figure tozze e animali esageratamente grandi, si svolge una scena di sacrificio in cui l’interesse maggiore viene dato al significato simbolico piuttosto che a una rappresentazione verosimigliante alla realtà. Ai lati del fornice si stagliano i pannelli più interessanti, i quali commemorano due fasi del trionfo dell’imperatore dopo la conquista di Gerusalemme nel 70 d.C.: il pannello destro mostra Tito su una quadriga condotta dalla personificazione della Virtù, mentre viene incoronato dalla Vittoria ed è circondato da altre due figure, forse la dea Roma e il Genio del popolo romano, sullo sfondo una folla che festeggia il trionfatore; il pannello sinistro raffigura l’ingresso del corteo nella porta triumphalis, raffigurata all’estrema destra, un corteo in cui vengono portati tutti i beni sottratti a Gerusalemme, i ricchi arredi del tempio, oggetti preziosi, uno dei candelabri a sette braccia e le tabelle con l’elenco degli oggetti presi e delle città vinte.
Vi sono delle novità estremamente importanti in queste opere, un nuovo modo di rappresentare il rapporto tra lo spettatore e l’opera d’arte, frutto a sua volta di un cambiamento nel sentire il rapporto tra l’uomo e la realtà del mondo. Mentre per l’arte greca lo spettatore era fermo in un punto davanti al quale scorreva, sopra una linea orizzontale, il piano su cui si muovevano le figure della composizione, adesso, nonostante un disegno ancora classicistico, davanti allo spettatore, sempre fermo, scorre una linea concava e convessa che si avvicina a lui fino a sfiorarlo per poi ripiegare e scomparire (per esempio sotto la porta triumphalis).
Il fondo è concavo, vi è un maggiore affollamento e una variazione del rilievo che riesce a rendere meglio la spazialità e l’idea di chi sia più lontano e chi più vicino allo spettatore. Le figure è come se si muovessero su più piani, curvano nel loro percorso, non procedono su linee rette, sono viste di tre quarti e di faccia: chi osserva risulta sempre più partecipe della scena, sempre più circondato da ciò che avviene nella raffigurazione e solo un secolo più tardi sembrerà quasi entrare nell’opera d’arte e guardare da una seconda fila immaginaria, dietro le spalle dei personaggi in primo piano.
Questo tentativo, a cui ancora non si è pronti e che non risulta ben riuscito, si tenta nella volta dell’arco al cui centro è raffigurata una formella con la rappresentazione dell’apoteosi di Tito: l’imperatore è portato in cielo da un’aquila e uno scorcio ardito pone la sua testa a contatto immediato con il corpo dell’uccello.
La disinvoltura manca ma il tentativo di rendere il movimento e la partecipazione dello spettatore c’è.
La strada è stata spianata per gli sviluppi futuri.
L’Arco di Tito racconta quel che è stato e quel che sarà.
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