Di Silvia Urtone
Quando pensiamo a Venere, la dea della bellezza, pensiamo a statue come la Venere Callipigia o anche a quadri più recenti come la Venere di Botticelli, entrambe splendide, dai seni prosperosi, dalla pelle delicata e levigata, il volto meraviglioso, i capelli lunghi e fluenti. Non ci viene di certo in mente il fatto che anche delle antichissime statuette, quelle dell’inizio dei tempi, risalenti alla Preistoria, all’antica Età della Pietra, portino lo stesso nome, apparendo al contempo così diverse dall’immagine che gli antichi avevano e noi stessi oggi abbiamo dell’idea della bellezza.
Perché la bella Venere, l’Afrodite greca, tra le più importanti divinità del pantheon, era la dea dell’amore, della bellezza e della fertilità, era la figlia di Urano nata dai suoi genitali tagliati da Saturno e gettati nel mare: nacque dal seme entrato in contatto con la schiuma e uscì dal mare da una conchiglia, meravigliosa e già nel fiore della giovinezza, immagine perfetta di splendore e prosperità.
Ma l’idea di bellezza cambia nei secoli, cambia nei millenni, ed è così che arriviamo alla cosiddetta Venere di Willendorf, il più antico capolavoro della storia della scultura, una delle prime rappresentazioni non propriamente della dea Venere ma della Dea Madre e dell’idea stessa di bellezza e fertilità.
Ci troviamo nel Paleolitico Superiore, Età della Pietra, tra il 40.000 e il 10.000 a.C., le comunità sono per lo più nomadi e dedite alla caccia e le prime forme artistiche, a partire dal 30.000, cominciano ad assumere caratteristiche ben definite. Due sono i temi principali affrontati: le rappresentazioni di animali e la raffigurazione umana.
Entrambe legate al tema della sopravvivenza hanno per lo più protagonisti animali, i quali assicurano il sostentamento quotidiano e la cui raffigurazione afferma il possesso su di loro da parte degli uomini, e donne, il simbolo assoluto della fertilità, grazie a cui viene assicurata la continuazione della specie. È in questo ambito che vengono a collocarsi le cosiddette “Veneri”, statuette in pietra, osso e avorio, la più famosa delle quali è la Venere di Willendorf, databile tra il 23.000 e il 19.000 a.C. e oggi conservata al Museo di Storia Naturale di Vienna: alta 11 cm e scolpita in pietra calcarea dipinta in ocra rossa venne rinvenuta nel 1908 dall’archeologo Josef Szombathy in un sito paleolitico in Austria, chiara testimonianza di cosa significasse per i primi uomini la donna.
Ciò che a una prima occhiata colpisce nella Venere di Willendorf è l’esagerazione di alcuni suoi caratteri a discapito di altri. Il corpo è massiccio e compatto e il fisico femminile raffigurato è quello di una donna affetta da steatopigìa, ossia una spiccata lordosi lombare con il conseguente accumulo di grasso su glutei e cosce: in effetti la donna è tutta cosce e glutei…e anche ventre e seni!
Al contrario i piedi mancano, le braccia sono appena accennate, sottili e raccolte sopra il seno, i caratteri facciali assenti, mentre ben rifinita appare la capigliatura perfetta, piena di riccioli definiti che creano una vera e propria decorazione, riccioli che sono come nodi incredibilmente attorcigliati. La sfericità domina, la Venere è essenzialmente grassa e florida, a metà tra il naturalismo e il simbolismo, e la cura e attenzione mostrate nella sua realizzazione ci danno un forte indizio riguardo la particolare importanza di questo soggetto per la cultura che l’ha prodotto.
La statuina è l’immagine della fecondità, il simbolo stesso della maternità in senso astratto: ad essere raffigurata non è una donna in particolare ma la Donna stessa, il suo concetto, la Dea Madre. Non ha volto, non ha caratteri particolari che la identifichino eccetto quelli che ne fanno una creatura atta a donare la vita: ecco allora che i seni, il ventre, la vulva e le cosce sono estremamente sviluppati, ecco che il colore rosso ocra, il colore della passione e del sangue mestruale che annuncia la capacità della donna di poter mettere al mondo un bambino, ricopre il corpo della donna, ecco che la Venere diventa prosperità e fertilità stessa.
La donna è portatrice di vita, aveva una posizione di riguardo nella civiltà paleolitica, e la sua bellezza risiedeva in caratteri ormai lontani dalla nostra idea, risiedeva nella sua capacità di avere figli e, quindi, più floride erano le sue forme più era atta a questa funzione! Ecco spiegata la “donna grassa” rappresentata e venerata come una Venere, ecco spiegata la Venere di Willendorf, Dea Madre e genitrice di tutte le creature e dell’essere umano stesso.
Il culto della Dea Madre fu uno dei primi dell’umanità, l’oggetto del culto era la donna stessa, non qualcosa di astratto, ma di realistico e concreto: il valore della donna era riconosciuto e rispettato.
La Venere di Willendorf, nonostante le poche informazioni in nostro possesso, rappresentava probabilmente la stessa divinità propiziatrice della fecondità, un modo per ottenere il suo favore e ottenere dei figli, l’unico modo per avere la possibilità di vivere dopo la morte.
La Venere di Willendorf era bellezza e magia.
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