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Emozione Arte

Menelao e Patroclo nel drammatico gruppo del Pasquino. Da eroi omerici a ispirazioni per eroi reali


“E vide Menelao, l’eroe prediletto di Marte, Pàtroclo sotto i colpi troiani cadere in battaglia; e tra le prime file, coperto del lucido bronzo, presso a lui corse, come giovenca primipara, ignara sin li del parto, va mugolando d’intorno al vitello. Stava cosí Menelao, di Pàtroclo attorno alla salma, e innanzi a lui tendeva lo scudo rotondo e la lancia, pronto ad uccider chiunque venuto gli fosse di contro.”

[Iliade, Omero, Canto XVII, trad. Ettore Romagnoli]

C’era una volta un certo Menelao, il fratello di Agamennone, il re di Sparta, il marito della bella Elena…ma quali erano le sue origini?

Egli apparteneva alla maledetta stirpe di Pelope, figlio di Tantalo.

Quest’ultimo aveva osato sfidare gli dèi e la loro onniscienza invitandoli a un banchetto e servendo loro come portata principale lo stesso figlio, Pelope: Demetra, disperata per la recente perdita della figlia, non si accorse di ciò e mangiò parte della spalla del ragazzo mentre gli altri notarono subito questo empio atto!

Punirono Tantalo condannandolo ad avere per sempre una fame e una sete impossibili da placare mentre lo sfortunato Pelope venne resuscitato e la spalla sostituita con una d’avorio.

Ma la maledizione caduta su Tantalo aveva ormai macchiato per sempre la sua stirpe: Pelope, nelle sue peregrinazioni, si innamorò di Ippodamia, figlia del re di Pisa, Enomao, il quale sfidava tutti i pretendenti nella corsa coi carri, avendogli un oracolo predetto la fine per mano del proprio genero. Gli sconfitti venivano uccisi fino all’arrivo di Pelope che riuscì a sconfiggere Enomao slealmente, corrompendone l’auriga (e promettendogli una notte con Ippodamia), il quale manomise il carro. Enomao morì e Pelope ottenne la mano di Ippodamia ma, gelosissimo della moglie, annegò l’auriga che lo aveva aiutato, il quale invocò Ermes: Pelope venne maledetto come suo padre e la rovina cadde anche sui suoi figli Atreo e Tieste e sulla loro discendenza.

Menelao e Agamennone erano proprio figli di Atreo e Erope e la maledizione di Menelao fu quella di sposare la “causa” della lunghissima Guerra di Troia, Elena, ed è proprio durante questa guerra che si svolse il fatto che oggi andiamo a narrare, un momento che viene fermato nel marmo in una statua.

Si tratta del salvataggio del corpo ormai esanime di Patroclo, amico e amato di Achille, da parte del re di Sparta.


Gruppo del Pasquino di Firenze



Si chiama Gruppo del Pasquino, si trova nella Loggia dei Lanzi a Firenze, ed è splendida copia romana di un originale ellenistico di III sec. a.C.

La statua riprende due modelli molto simili del periodo, entrambi con una figura stante che ne sostiene una senza vita, quello di Achille che trascina il corpo morente della regina delle Amazzoni Pentesilea e quello dell’eroe che trascina un compagno fuori dal campo di battaglia.

Il Gruppo del Pasquino è una delle tante copie esistenti del modello e deve il suo nome al Pasquino di Roma, forse l’originale, il più celebre dei “monumenti parlanti” a cui, nella Roma dei Papi, venivano affisse le anonime proteste dei cittadini. Al collo di questa statua, frammentaria, logora, col volto danneggiato e parte di un gruppo, nella notte venivano appesi fogli contenenti satire in versi che sbeffeggiavano personaggi pubblici importanti: erano le cosiddette “pasquinate”, modi ammessi attraverso i quali emergeva il malcontento popolare nei confronti del potere.

Ma torniamo al Gruppo del Pasquino, statua completa di quello che un tempo doveva essere il Pasquino romano!


Pasquino di Roma

Il corpo muscoloso e in tensione, il capo, coperto da un magnifico elmo, volto non verso il basso ma verso un nemico a noi non visibile, pronto a qualsiasi attacco, la barba ben delineata e folta, la bocca socchiusa, gli occhi contratti e attenti, la tunica che copre la parte inferiore del corpo…è Menelao che avanza e sostiene coraggiosamente il corpo senza vita del giovane Patroclo, nudo e imberbe, dal volto fanciullesco, le membra totalmente abbandonate e senza forze, le gambe trascinate sul terreno, il braccio sinistro che ricade senza vita a terra, la testa piegata innaturalmente all’indietro e verso il basso.

Atena ha concesso al re spartano di condurre in salvo il corpo di Patroclo per riportarlo da Achille, episodio narrato nel XVII libro dell’Iliade di Omero, ma questa è anche l’immagine di un soldato reale che porta via dal combattimento il suo reale compagno morto.

E quello che inevitabilmente il gruppo mitico richiama alla mente è il gruppo, “storico” in questo caso poiché narrante eventi storici, del Galata suicida, appartenente allo stesso periodo e alla stessa tradizione!

Qui il guerriero nudo e stante, saldamente ancorato al suolo, con gli attributi tipici del guerriero galata, volta fieramente la testa all’indietro, verso l’immaginario campo di battaglia, mentre con il braccio destro si conficca tra le clavicole una spada corta, dandosi fieramente la morte, una morte che sta già cogliendo la sposa, sostenuta con la sinistra e accasciata al suolo.

Quale opera venne fatta prima?

Difficile dirlo ma può sembrare più naturale che lo sviluppo sia partito dal tema mitico trattato nel Pasquino per poi arrivare al suo compimento nell’avvenimento reale raccontato nel Galata suicida, quello della guerra tra la città di Pergamo e i Galati.

Ecco che Menelao e Patroclo, eroi mitici, diventano esempio e modello per eroi realmente esistiti, in un turbinio di coraggio, morte e drammaticità.

Di Silvia Urtone


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