Di Silvia Urtone
Siamo nel periodo del cosiddetto “stile severo”, V sec. a.C.
In Elide, ai piedi del monte Kronion.
Siamo in presenza del santuario di Olimpia, sede delle celebri Olimpiadi, e in particolar modo del tempio di Zeus, fulcro di questo luogo sacro e mistico.
Proprio nel V sec. l’importanza del santuario è al culmine e tra il 470 e il 456 viene eretto uno dei più grandi templi della Grecia continentale, dedicato al padre degli dèi: costruito in calcare, con decorazione scultorea in marmo, di ordine dorico, periptero (circondato da un portico di 6×13 colonne), scandito in pronao, cella e opistodomo. Nella parte terminale della cella, lì dove gli occhi dei fedeli venivano attratti irresistibilmente, era collocata la statua crisoelefantina di Zeus, opera di Fidia, di cui oggi restano solo le tracce della base.
Del ciclo figurativo è lo storico Pausania a parlarci con dovizia di particolari, dalla maestosa statua di Zeus alle dodici metope narranti le 12 fatiche di Ercole, dalla lotta tra Lapiti e Centauri durante le nozze di Piritoo del frontone occidentale alla saga di Pelope di quello orientale.
Perché la presenza dell’eroe locale Pelope sul frontone che corrispondeva all’ingresso del tempio?
Chi era Pelope?
Pelope era il figlio di Tantalo e il suo culto fu il primo ad essere celebrato nell’area. Secondo la leggenda al re dell’Elide Enomao, padre della bella Ippodamia, era stata predetta la morte per mano del genero. Per disfarsi allora dei pretendenti della figlia mise a punto un astuto stratagemma sfidandoli a una corsa coi carri: grazie ai suoi velocissimi cavalli risultava sempre il vincitore e come premio per sé richiedeva di uccidere chi avesse osato sfidarlo.
Pelope era uno dei pretendenti, corruppe l’auriga del re, il quale manomise il carro del sovrano, e riuscì a battere Enomao. Ma il re, prima di morire, maledisse la sua stirpe e la maledizione passò di padre in figlio, ai figli Tieste e Atreo, l’ultimo dei quali si macchiò dell’abominevole atto di bandire al fratello le carni dei suoi figli.
Proprio la saga di questo eroe lo scultore del tempio conosciuto come Maestro di Olimpia decise di rappresentare nel frontone orientale: in marmo pario, databili tra il 471 e il 456 a.C. e conservati al Museo Archeologico di Olimpia i resti del frontone sono considerati tra i capolavori dello stile severo. La scena scelta raffigura i preparativi per la famosa gara di corsa sui carri tra Pelope ed Enomao, è legata direttamente alle origini mitiche del santuario ed è il momento stesso del giuramento precedente alla competizione. I personaggi appaiono come figure isolate, chiuse in se stesse, in tensione per quello che sta per accadere, in un’atmosfera sospesa e carica di presagi, ciascuno concentrato sul proprio destino.
La tragedia sta per cominciare e i protagonisti si stanno disponendo sul palcoscenico.
Al centro di tutto c’è il padre degli dèi Zeus, presenza che segue la tradizione del collocare al centro del timpano un dio, in questo dato caso invisibile agli altri personaggi ma non allo spettatore, il quale rappresenta il destino inevitabile: è stante, ha la testa (non pervenuta) volta verso la sua destra, come suggerito dai muscoli tesi del collo, la gamba destra poggia saldamente a terra mentre la sinistra è leggermente piegata e il movimento determina la contrazione del fianco e lo spostamento della linea alba; la mano destra doveva reggere un fascio di fulmini, il torso è nudo mentre dai fianchi in giù il dio è cinto da un mantello, un lembo del quale è trattenuto dalla mano sinistra.
Ai lati del dio i protagonisti del dramma divisi in coppie, Pelope e Ippodamia a destra e Enomao e la moglie Sterope a sinistra. Enomao è barbato, ha la bocca socchiusa che lascia intravedere i denti, in un chiaro segno di crudeltà, mentre il giovane Pelope è in nudità eroica come il rivale; Stenope indossa un peplo sciolto che crea un gioco di pieghe movimentate, mentre Ippodamia, colta nell’atto di togliersi il velo dal capo, gesto legato alle raffigurazioni nuziali, porta un peplo dorico, stretto in vita da una cintura che dà vita a larghe pieghe e cade sulle gambe con pieghe profonde.
Al lato della coppia giovane seguono una figura inginocchiata, probabilmente un’ancella, la quadriga con cui Pelope vincerà la gara, un vecchio indovino con pieghe di carne sotto i pettorali e la mano portata alla guancia in un gesto di angoscia, un giovane accovacciato e un personaggio sdraiato con le gambe avviluppate in un mantello, personificazione del fiume Cladeo. Analoghe sono le figure al lato della coppia matura, ossia uno stalliere, la quadriga, l’auriga traditore, un indovino e il fiume Alfeo.
Il modo in cui le figure sono scolpite esprime una concezione artistica ormai lontana da quella molto descrittiva del periodo arcaico: il nudo è essenziale, il panneggio è sottolineato da poche pieghe pesanti e la figura emerge possente, piena di forza vitale!
I personaggi dominano lo spazio, si presentano su questo palco immaginario e anticipano già la tragedia che stanno in un certo senso per rappresentare. Il tragico finale già si conosce ma questo non impedisce comunque allo spettatore di rimanere col fiato sospeso in attesa dei drammatici eventi che verranno.
Il Maestro di Olimpia, nel frontone est, ha creato una tragedia di marmo e noi non possiamo fare altro che ammirarla angosciati come il vecchio indovino.
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