Sarà ancora visitabile fino al 12 febbraio la mostra di Edward Hopper al Complesso del Vittoriano a Roma. Sono stata recentemente a vederla e ne sono rimasta piacevolmente colpita. Alcune persone me ne avevano parlato male, invece la curatela è stata, secondo il mio punto di vista, ben gestita.
Prima però di analizzare nel dettaglio la mostra, spendiamo due parole sull'artista. Nato a Nyack (un sobborgo di New York) nel 1882, Hopper ha passato la sua giovinezza e parte dell'età adulta lavorando come illustratore pubblicitario alla C.C. Phillip & Company. Ci lavorerà dal 1908 al 1924, più per guadagnarsi da vivere che per passione verso il mestiere. Già dall'età di cinque anni mostrò propensione verso il disegno e nel 1900 entrò alla “New York School Art”, dove insegnava William Merrit Chase, un seguace dell'impressionismo europeo. Le sue prime opere nacquero in questo periodo ed erano più che altro autoritratti con una prevalenza di colori scuri. Dopo sei anni, nel 1906, partì per un viaggio a Parigi. Questa sarà la sua prima e più importante esperienza per la carriera artistica. E' qui che conoscerà gli impressionisti e grazie a loro, schiarirà la tavolozza e comincerà a lavorare “en plein air”. Una volta tornato, esporrà un quadro ad una mostra nell'Upper East Side di Manhattan, organizzata dal maestro e artista Henri. I suoi lavori però non vennero presi in considerazione. Subito dopo questa esperienza negativa, inizierà il suo lavoro alla Phillip & Company, come illustratore pubblicitario. Con i soldi guadagnati, continuerà a viaggiare. Tornerà una seconda volta a Parigi, andrà ad Amsterdam, a Berlino, in Spagna e affinerà sempre di più la sua arte. Una volta rientrato a New York non tornerà mai più in Europa.
Seguirà un momento di sgomento e nostalgia per la mancanza dell'arte che lo aveva affascinato, ma subito dopo, questo sentimento scomparirà per fare spazio ad un senso di rivincita e innovazione. Entrerà a far parte del “Gruppo degli Otto” e verrà poi ricordato come uno dei esponenti del cosiddetto “realismo americano”. Questo “movimento” vedeva come principale obiettivo il superamento dell'arte europea che da sempre era stata presa come modello e ispirazione dagli artisti statunitensi. L'intenzione era quella di creare un'arte che potesse essere soltanto americana, senza rimandi a nessun'altra cultura. E tutto questo in un periodo di poco successivo all' ”Armony Show” (1913) dove si potevano ammirare tutti i capolavori delle avanguardie europee. Nonostante questo però, l'arte di Hopper è intrisa di rimandi ad artisti come Degas, Renoir, Toulouse-Lautrec e Van Gogh. E non si può fare a meno di notarlo.
Oltre a dipingere ad olio, si specializzerà negli acquerelli e nelle incisioni, a cui, per un breve periodo, vi si dedicò al posto della pittura. Il successo cominciò ad arrivare nel 1924, grazie ad una mostra alla Rehn Gallery. Da questo momento molti dei suoi quadri vennero acquistati e il “Whitney Museum” di New York gli dedicò una retrospettiva. Oggi quasi tutte le sue opere si trovano in questo museo. Morì nel 1967 all'età di ottantacinque anni.
Per la sua arte si parla spesso di nostalgia e solitudine. Hopper si dichiara però estraneo a queste definizioni. Non ritiene di aver mai creato quadri tristi; quello era solo il suo personale punto di vista sul mondo. I suoi soggetti preferiti erano sicuramente figure singole, inserite in interni di caffè o in appartamenti. Ma altrettanto numerosi sono i suoi quadri ambientati all'esterno. Le luci sono fredde, artificiali, non naturali e questo tende a dare ai suoi lavori un senso fotografico molto forte. Infatti, non a caso, l'artista si era molto interessato sia alla fotografia che al cinema e al teatro.
Torniamo ora alla mostra. Come detto prima, nel complesso l'esposizione è stata ben fatta. L'unica pecca negativa è stata, secondo me, la scelta di inserire l'audio-guida nel biglietto e quindi alzarne il prezzo (14€). Però, bisogna dire che era ben strutturata. Oltre alla solita voce registrata che spiegava la storia del quadro, erano state inserite le interviste fatte all'artista durante la sua vita e spiegazioni del curatore: Luca Beatrice. Una cosa diversa e sicuramente originale.
Le tele scelte sono maggiormente quelle che vedono la rappresentazione di esterni (anche se non mancano alcuni quadri con interni di case). Penso sia stata una scelta presa del curatore insieme al “Whitney Museum”. Infatti non si sarebbe potuto svuotare interamente il museo, portando tutto “in trasferta” e si è fatta una cernita. Nonostante questo, alcuni dei suoi quadri più famosi erano lì. Uno di questi, “Soir bleu” (1914), si basa su una poesia di Rimbaud che parla del vagabondaggio. Un desolato locale parigino, vede la presenza di personaggi diversi tra loro, che sembrano essere stati messi lì a caso. Vediamo un “pierrot”, una prostituta probabilmente in cerca di clienti, un uomo con una sigaretta in bocca e altri che mangiano qualcosa. E qui vediamo l'influenza di Degas e Toulouse Lautrec.
Sono in mostra anche alcuni dei suoi acquerelli, come il famoso faro dal titolo “Light at Two lights” (1927) e alcune incisioni realizzate come studi preparatori per i quadri. Per esempio si può ammirare il disegno preparatorio del quadro “Gas” (1940), famoso per l'uomo solitario che mette benzina al distributore. Interessante il suo “Sketch book”, ossia il quaderno dei suoi disegni con tutti gli appunti presi per lo studio dei quadri. Si può sfogliare in digitale in una delle sale della mostra. Un altro quadro famoso esposto è “Second Story Sunlight” del 1960, dipinto sette anni prima della sua morte. Ormai anziano l'artista era ancora a lavoro. Vediamo le tipiche case hopperiane, bianche e identiche e una luce fredda, artificiale che sembra bloccare tutto in un istante.
L'ordine seguito dal curatore è stato quello cronologico. Si è partiti dai suoi primi quadri, per arrivare a quelli di fine carriera. Una scelta accademica e tradizionale.
La parte però innovativa è stata sicuramente il piano superiore, dove le attività virtuali e interattive non mancavano di certo. Intanto, per gli amanti del disegno, sono stati allestiti dei pannelli con i quadri di Hopper retro illuminati su cui poter poggiare dei fogli bianchi (disponibili in situ) e ricopiare con la matita il contorno per dare spazio alla propria fantasia e all'estro creativo. Un volta terminato, lo si può appendere e farlo ammirare a tutti. Per finire, prima di varcare la porta di uscita, è possibile fare una foto dentro il quadro di Hopper “Second Story Sunlight”. Tramite un proiettore è possibile entrare proprio dentro l'opera e sedersi accanto a uno dei due personaggi del dipinto. Un'iniziativa moderna e simpatica che è stata e sarà sicuramente apprezzata dai visitatori, ormai tutti tecnologici e “social”.
Nel complesso non posso che dare un giudizio positivo alla mostra e voglio invitare anche voi ad andare a vederla se ancora non lo avete fatto. Ne rimarrete sicuramente soddisfatti.
Le foto sono state scattate tutte da me durante la mostra.