“Da Caravaggio a Bernini”, titolo fuorviante? Da una parte sì e dall’altra no. Basta leggere il sottotitolo per capire di cosa si tratta: “Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni reali di Spagna”. Mettiamoci però dalla parte del pubblico medio, non addentrato nel mondo dell’arte, tanto da capire che in mostra non abbiamo solo Caravaggio e solo Bernini. E basterebbe riflettere un attimo per capire che così non può essere. Le opere del Merisi sono disseminate per chiese e musei di Roma, quindi raramente verrebbero spostate per prendere posto in un altro museo o galleria romana. La Cappella Contarelli è in San Luigi dei francesi, la Cappella Cerasi è in Santa Maria del Popolo, la tela della “Madonna dei Palafrenieri” è nella chiesa di Sant’Agostino. Per non parlare poi dei numerosi musei che ospitano suoi capolavori (basti citare la Galleria Borghese). Per Bernini il discorso è simile. Di origini napoletane, ma attivo a Roma, è stato uno dei più grandi scultori e architetti del Seicento barocco italiano. Le sue opere sono colossi dell’arte: il baldacchino di San Pietro, il colonnato esterno della stessa basilica, la scalinata a Palazzo Barberini e le magnifiche statue nella Galleria Borghese. Il pubblico non poteva attendersi di vedere cose del genere, anche perché sarebbe stato impossibile spostarle. Di lui vedremo solo due cose, che forse non rendono giustizia al suo grande genio, ma pur sempre autografe. Vi domanderete del perché di questa premessa, forse un po’ scontata, ma necessaria. Ho sentito più volte in questo primo mese e mezzo di esibizione, parlare negativamente del titolo, come se fosse stato pensato a tavolino per accaparrarsi il maggior numero di pubblico e quindi di soldi. In realtà bisognerebbe soffermarsi di più su quello che si legge e si vuole vedere. Il titolo scelto è in realtà chiaro: da Caravaggio a Bernini indica il lasso temporale che intercorre tra questi due grandi geni italiani della storia dell’arte. Il sottotitolo poi chiarisce ulteriormente: sono capolavori provenienti dalle collezioni reali spagnole. Come mai sono così importanti? Perché custodiscono opere che nel corso della fine del Cinquecento e del Seicento, sono state donate alla Spagna dal governo e dai governatori italiani. Per quale motivo? Per mantenere dei buoni rapporti con la dinastia asburgica che da tempo dominava il Viceregno di Napoli, lo Stato di Milano e il piccolo Stato di Piombino. Era un modo, potremmo dire, per “tenersi buoni” i regnanti spagnoli, che d’altro canto gradirono molto i doni. Gran parte delle opere provengono dal Museo Real, oggi Prado, creato nel 1819 dal re Ferdinando VII. All’interno sono conservate tutte le opere provenienti dalle collezioni reali. Quelle che non vennero portate, rimasero nelle residenze dei monarchi. La mostra evidenzia anche quei legami stretti che ci furono tra Caravaggio e la Spagna e tra artisti italiani che ne rimasero influenzati e che lavorarono poi nella penisola iberica.
Possiamo ora a descrivere la mostra e la sua organizzazione, suddivisa per artisti e periodi. Nella prima sala campeggia la tela più acclamata di tutta la mostra, ossia “Salomè con la testa del Battista” di Caravaggio. Non è un caso che l’opera sia stata messa proprio all’inizio. Il pubblico non vedeva l’opera di poterla ammirare (è stata scelta anche come copertina della mostra stessa). Tante cose andrebbero dette su questa tela, in primis, la sua non ancora appurata autografia. Sui vari e ormai molteplici libri letti e studiati sul Merisi, questo quadro non viene da tutti considerato un originale. Anche io tendo verso questa ipotesi. La critica lo colloca nel 1609 circa, quindi alla fine della vita di Caravaggio. Perché? Perché Bellori, noto biografo seicentesco, ci dice che Caravaggio aveva realizzato una “Salomè con la testa del Battista” per il Gran Maestro dell’ordine di Malta, dove lui, tempo prima, era stato eletto Cavaliere. Pochissimo tempo dopo però, era stato cacciato a causa della sua “cattiva condotta” e per questo avrebbe realizzato il quadro, come dono, per farsi perdonare. Non fu l’unica volta che Caravaggio fece una cosa del genere. Per il cardinale Borghese realizzò una serie di quadri, tra cui il famoso “David e Golia” oggi alla Galleria Borghese. Il motivo era simile: chiedere venia per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni e poter tornare così a Roma, dove la sua fama stava raggiungendo vette importanti. Non è da escludere però che l’opera sia una copia realizzata dai numerosi caravaggisti dell’epoca, che probabilmente videro il quadro e lo copiarono. Anche la datazione al 1609, secondo me, non convince. Lo stile non è assolutamente del tardo periodo del Merisi, al contrario sembra collocarsi alla fine del Cinquecento, inizio Seicento. L’ambientazione è sì molto scura, ma non c’è la rarefazione delle figure che sembrano dissolversi (come per esempio nella “Resurrezione di Lazzaro” e nel “Martirio di Sant’Orsola”), la vecchia poi è molto simile (anche se non uguale) a quella del quadro “Giuditta e Oloferne”, oggi a Palazzo Barberini e datato 1599. La testa del Battista sul vassoio, potrebbe essere un ritratto del pittore? Nel “David e Golia” della Galleria Borghese la testa del gigante lo era. Tenendo conto che i quadri sono stati dipinti per lo stesso scopo, la risposta potrebbe essere affermativa, ma ad un’analisi visiva, non sembra proprio. E anche le due tele sono stilisticamente diverse. La prima volta che il quadro di Salomè viene descritto, è nel 1636 come opera anonima, collocata nell’oratorio del re nell’Alcazar di Madrid. Compare anche nei successivi inventari del 1666, 1668 e 1700 e qui come opera di Caravaggio. Nel 1734 sappiamo che il quadro si salvò dall’incendio che devastò l’Alcazar. Da questo momento fino al XIX secolo si trova a Palacio Real Nuevo, poi trasferito all’Escorial. Una parte della critica ritiene invece che il quadro sia stato portato in Spagna da Napoli da Garcia Conde de Castrillo, una volta terminato il suo mandato da viceré.
Sempre nella stessa sala, troviamo altri due quadri molto interessanti. Il primo di cui voglio parlare è “Giuditta e Oloferne” di Fede Galizia, artista milanese, nata cinque anni dopo Caravaggio. Il padre era un miniatore e l’arte per il dettaglio è stata studiata molto bene dalla giovane che, in questa tela, realizza il vestito di Giuditta finemente decorato e reso nei minimi particolari, quasi da precisione fiamminga. Il quadro è datato 1596 (è la stessa pittrice a firmarsi sulla lama della spada) e sembrano evidenti delle reminiscenze caravaggesche, anche se il Merisi realizzò la sua “Giuditta e Oloferne” a ridosso degli stessi anni e non sappiamo se Fede Galizia possa averla vista con i propri occhi. La tenda rossa alle spalle della donna è molto simile a quella del Caravaggio, la vecchia invece non è resa con quello stile caricaturale e grottesco della tela del lombardo. Diversa è anche la scena, o meglio il momento in cui è stata immortalata Giuditta. Caravaggio la ritrae mentre sta compiendo l’omicidio, invece Galizia quando ormai il gesto è compiuto e la testa è mostrata sul vassoio. Bisogna soffermarsi anche sull’iconografia tradizionale della Giuditta e Oloferne che, tradizionalmente, vede la presenza della testa di Oloferne in un sacco e non su un vassoio, iconografia invece tipica della “Salomè con la testa del Battista”. L’unico elemento che ci dà la certezza che si tratti di Giuditta, è la presenza della sciabola che brandisce in mano. Infatti è proprio Giuditta che uccide, decapitando Oloferne. Salomè invece non si macchia di omicidio (compiuto da un carnefice) e viene sempre ritratta mentre mostra la testa del Battista su un vassoio. Di Fede Galizia rimangono circa sessanta quadri, di questi, quaranta sono nature morte. Proprio per questo motivo, Galizia è stata considerata l’inventore del genere della natura morta in Italia.
In questa prima sala è presente anche Guido Reni con la tela della “Santa Caterina d’Alessandria. L’artista bolognese, coniuga il classicismo raffaellesco con la verità cruda del Caravaggio. Si è formato all’Accademia degli Incamminati (poi dei Desiderosi) dei Carracci e qui mostrò tutto il suo talento. In questa tela la santa unisce la classicità del tema con l’oscurità del Caravaggio. È rappresentata a mezzo busto, con in mano la palma del martirio e guarda verso l’alto in segno di grazia. Alle sue spalle si vede la ruota dentata con cui è stata uccisa. Il tutto è avvolto da un’atmosfera tenebrosa. Come gran parte di voi saprà, anche Caravaggio realizzò una tela con lo stesso soggetto. Una Santa Caterina d’Alessandria che potremmo definire quasi sensuale. È dipinta a figura intera, seduta, poggiata sulla ruota, mentre con le mani impugna una lunga spada. A terra la palma del martirio. L’opera è collocata alla fine del Cinquecento ed è stata realizzata per il cardinale Del Monte. Oggi si trova nel Museo Tyssen Bornemisza di Madrid.
Continuando, nelle sale successive si possono ammirare due artisti molto importanti. Il primo è Guercino, presente con la tela “Lot e le figlie”. È stato uno dei soggetti più rappresentati in quel periodo e vede la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra e l’unione di Lot con le figlie, per paura che la stirpe non potesse continuare. Nella tela vediamo infatti proprio questa scena. Le figlie di Lot stanno facendo ubriacare il padre per poter così unirsi a lui. Sullo sfondo si vedono Sodoma e Gomorra in fiamme e la moglie di Lot è diventata una statua di sale perché si è voltata mentre le città andavano in fiamme.
Di Guido Reni è esposto anche un altro bellissimo quadro: “La Conversione di Saulo”. Come non pensare, anche in questo caso, allo stesso soggetto di Caravaggio nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo? A prima vista appaiono diversi. Guido Reni non utilizza le atmosfere scenografiche e buie di Caravaggio, ma l’iconografia è molto simile. Sicuramente avrà ammirato la tela del Merisi. Saulo è a terra, impaurito perché il cavallo l’ha disarcionato. In cielo una luce squarcia le nuvole, è Dio che sta per parlare con il persecutore dei cristiani. C’è purezza e candore nella tela di Reni. La cosa straordinaria è che è stata ritrovata poco tempo fa da Gonzalo Redín Michaus (il curatore della stessa mostra in Spagna) in un locale nascosto del Palazzo Reale di Madrid. Una scoperta importante che ha dato inizio a questo percorso espositivo.
Continuando, non si può non ammirare la bellissima tela di Diego Velásquez “La tunica di Giuseppe” (1630) normalmente presente nel Monastero dell’Escorial di Madrid. La storia ritratta è nell’Antico Testamento, precisamente nella Genesi della storia dei Patriarchi. Giuseppe era uno dei dodici figli di Giacobbe, ottimo interprete dei sogni. I fratelli lo odiavano, essendo anche il prediletto del padre e decisero prima di gettarlo in un pozzo, poi lo vendettero come schiavo a dei mercanti d’Egitto. Velásquez ha dipinto il momento in cui i fratelli portano la tunica sporca del sangue di un capretto a Giacobbe e gli fanno credere che sia morto. Interessante e particolare il cagnolino nella parte bassa destra. Sembra stia abbagliando contro i fratelli di Giuseppe; forse si è accorto dell’imbroglio? Velásquez, nato a Siviglia, è stato uno dei pittori più importanti alla corte del re Filippo IV di Spagna e grande ritrattista (famosa la tela “Las Meninas”). Alla metà del Seicento viaggiò in Italia per apprendere l’arte dei gradi maestri rinascimentali e del passato.
Salendo al piano superiore, ci troviamo di fronte il grande “Crocifisso” bronzeo del Bernini. Un raro esempio di scultura realizzato con il bronzo, materiale con cui Bernini ha lavorato poco. Questo crocifisso si trova nel Monastero di San Lorenzo dell’Escorial, a Madrid ed è difficile da vedere. Questa è quindi un’ottima occasione per il grande pubblico. Sempre di Bernini, è esposto il modellino bronzeo della Fontana dei Quattro Fiumi a Roma.
Voglio terminare questo “exscursus” parlando degli ultimi quadri degni di nota. Sto parlando di Carlo Maratti e Andrea Vaccaro. Carlo Maratti si è formato nella bottega del Sacchi e fu istruito alla pittura di Raffaello e ad artisti bolognesi come Lanfranco e Guercino. Ha lavorato molto a Roma per Alessandro VII Chigi, oltre ad aver ricevuto commissioni prestigiose da chiese come Santa Croce in Gerusalemme. In mostra abbiamo la tela “Lucrezia si dà la morte”. Il quadro è ricco di pathos. La donna è dipinta a mezzo busto e si sta per trafiggere il petto con una spada, mentre rivolge gli occhi al cielo.
Di Andrea Vaccaro invece non sappiamo molto. È nato a Napoli nel 1604 e ha costruito un naturalismo tutto suo, riprendendo Caravaggio e reinterpretandolo in chiave classicista. In mostra abbiamo vari quadri che popolano l’ultima seziona della mostra. Io sono rimasta colpita dalla tela raffigurante la “Logica”. È un’iconografia insolita nella sua produzione di quadri, ma corrisponde alla descrizione che fa il Ripa nella sua “Iconologia”, ossia una giovane donna, vestita di bianco, con uno stocco nella mano destra e quattro chiavi nella sinistra. Il bianco è simbolo di candore e lo stocco è il simbolo dell’acutezza dello spirito.
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