Come di consueto ormai dal 2013, sono andata a visitare la della Biennale di Venezia, giunta alla sua 57ͣ edizione. Non potrò soffermarmi su tutti i padiglioni per ovvie ragioni di spazio, ma parlerò di quelli che mi hanno maggiormente colpito per tematica e allestimento, ossia il Padiglione dell’Australia, quello dell’Ungheria e quello Italiano.
Prima di partire però, voglio riassumere molto in generale le tematiche di questa edizione della biennale e come è stata impostata dalla curatrice francese Christine Macel. Il titolo è “Viva Arte Viva”, un auspicio ottimista all’incoraggiamento alla vita, come per voler ritrovare fiducia nell’arte. I contesti e le tematiche utilizzate spaziano dall’ecologia alle migrazioni, fino ad arrivare alle tragedie umane. L’ecologia e l’importanza data alla natura è evidente nelle opere presenti nell’arsenale, argomento attualissimo nel mondo d’oggi.
Il padiglione dell’Australia è stato quello che mi è piaciuto di più in assoluto. Prende in causa il problema delle migrazioni e dei rifugiati. Tematica anche questa di estrema e tragica attualità. L’artista è Tracey Moffatt, australiana di grande successo. È diventata molto famosa una volta arrivata a New York nel 1997. Qui ha cominciato a sviluppare interesse per le tematiche del razzismo, del genere, della sessualità, ma anche dello spaesamento, problema che ha attraversato i secoli e i popoli di ogni genere: il trovarsi in un paese straniero senza essere accettato. Il titolo del padiglione è “My horizon” e vuole spiegare, non senza tragicità, il problema dei viaggi della speranza degli esseri umani, di qualsiasi razza o epoca essi siano. Cosa utilizza nella sua arte? La fotografia a cui unisce film e video. Mette in scena drammi fotografici toccanti, utilizzando il filtro “seppia”. Protagoniste sono lande desolate e sperdute, dove il senso di smarrimento è in prima linea. La teatralità è evidente, ma senza cadere nel parossistico.
Il suo interesse per le foto e le immagini dei media, emerge già nella sua infanzia. Viveva in un sobborgo operaio di Brisbane e qui leggeva assiduamente le immagini delle riviste, film e televisione. I media erano per lei molto interessanti perché capaci di lasciar passare le emozioni.
In mostra abbiamo due nuovissime serie fotografiche: “Il Corpo Ricorda” e “Traversata”. Inoltre sono esposti anche due video: “Veglia” e “I Fantasmi bianchi giunsero dal mare” riuniti sotto l’unico titolo “Il mio Orizzonte”.
“Il Copro Ricorda” è formato da una serie di dieci fotografie di grandi dimensioni, dove protagonista assoluto è lo spaesamento, lo smarrimento. Il luogo fermato dalla macchina fotografica è deserto, spoglio e misterioso. A prima vista sembrano delle stampe vintage, ma nello stesso tempo presentano la narratività e l’epicità di un affresco murale. Cosa raccontano queste foto? La storia di una domestica, vestita come negli anni Cinquanta, che ritorna in una casa mal tenuta. Sembra rifugiarsi in quest’edificio, molto probabilmente nucleo vivo di ricordi che riaffiorano appena ne tocca le mura. La cameriera è racchiusa nel suo lutto personale e intimo e noi riusciamo a cogliere le sue emozioni, tristi e desolate.
La serie “Traversata” invece è ambientata in un porto sconosciuto. Forse sono le rive dell’Oceano Indiano, oppure la costa del Nord Africa, non possiamo saperlo perché non c’è nulla di identificativo. I personaggi sono tormentati, intrappolati in questo luogo pieno di nebbia che sembra non lasciare scampo. Tracey Moffatt vuole evocare i viaggi per mare rappresentati nella sequenza di dodici foto a colori su carta lucida dove racconta il viaggio degli uomini nella luce del pomeriggio. Le colorazioni usate creano un’ambientazione infernale, perché le figure sembrano intrappolate in delle spirali di fumo. La meticolosità usata nello scatto fotografico è altissima, simile al cinema. E nel padiglione sono proiettati anche due video, di cui “Veglia” è quello più sconvolgente, quello che mi ha toccato di più. Già la musica usata è tetra, spaventosa, preludio di qualcosa di terrificante. Cosa si vede? Delle zattere, delle barche cariche di rifugiati che combattono con il mare in tempesta. A queste immagini vengono inserite degli spezzoni tratti da film con i protagonisti che guardano fuori da una finestra il disastro che sta accadendo. I personaggi sono sconvolti e più si va avanti, più atterriti diventano i loro volti. Il senso di suspense e di pathos è altissimo e fa rimanere con il fiato sospeso fino alla fine.
Con questi lavori Tracey Moffatt prende spunto da una serie diversificata di fonti: poesia, prosa, cinema sperimentale, televisione e musica. A tutto questo unisce tecniche cinematografiche come il flashback, i primi piani, il controcampo, le sequenze oniriche. Grazie a questa moltitudine di tecniche, l’artista spazia tra vari elementi narrativi, proprio come se stesse cercando un altrove sempre più vicino.
Il padiglione ungherese è stato un altro dei padiglioni che più ho apprezzato. La tematica principale è la pace nel mondo. Non a caso il titolo datogli è “Peace on earth”. L’artista è Gyulia Varnai e vuole parlare della necessità delle utopie, visioni che portano l’umanità a stare bene anche se effettivamente la maggior parte delle volte le aspettative che abbiamo per il futuro non si realizzano. Ad oggi sono tante le sfide che l’uomo si trova a dover affrontare: ondate migratorie, crisi economica, disastri ambientali…L’artista ci incoraggia ad avere fede, a sperare in un mondo migliore. Le sue opere sono realizzate con tecniche diverse, ma tutte attuali. Le fonti usate sono reliquie della guerra fredda, oppure si riferiscono alla città di Dunaújváros dove tuttora l’artista vive. Due sono in particolare le opere che mi hanno colpito di questo padiglione: “Pace al neon” e “Arcobaleno”. La prima non è altro che la scritta “Peace on Earth!” illuminata al neon e sormontata dall’immagine della colomba, sempre illuminata al neon. Si trova in contrasto con la luce del sole e questo reinterpreta e attualizza il messaggio. Il simbolo della pace si trovava nell’edificio più alto di Dunaújváros (fino al 1990) e rappresentava il sogno della fine della guerra fredda e della pace nel mondo. “Arcobaleno” invece è un’installazione formata da ottomila distintivi originali di varie associazioni, società, città e movimenti degli anni ’60 e ’70. Sono di vari colori e sono stati uniti in modo da formare proprio un arcobaleno. Il messaggio è anche questo chiarissimo: fine della guerra fredda e sogno di una pace globale e duratura.
Per finire vorrei parlare del padiglione Italia, ubicato all’interno dell’Arsenale. Gli artisti coinvolti sono tre: Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò e Adelita Husni-Bey. Devo dire che ha evocato sentimenti cupi, ma il suo significato è a metà tra alchimia, religione e fantascienza. Il titolo dato al Padiglione è “Mondo Magico”, ripreso dal libro dell’antropologo napoletano Ernesto de Martino (1908-65) che ha condotto un cammino iniziatico sospeso tra presente e passato, simbolismo e alchimia. Tra i tre artisti quello che mi ha colpito è stato sicuramente Roberto Cuoghi. Visionario, è stato da sempre interessato alla tematica della metamorfosi e della trasformazione. Il suo interesse si è spinto anche sulle proprietà dei materiali, sulla fluidità delle forme identiche e lo ha portato a sperimentare nuove tecnologie. Il suo lavoro per questa Biennale si chiama “Imitazione di Cristo” (2017) e unisce le ricerche dette poco fa con un’attenta riflessione sulla storia dell’arte. Si è ispirato al testo medievale “De imitatione Christi” e ha creato uno spazio nuovo. Sto parlando di un corridoio gonfiabile che nella mente dell’artista diventa una fabbrica di idoli, tutti somiglianti al Cristo crocifisso perché sono adagiati su un tavolo proprio a forma di croce (fuori dal corridoio un cartello ci ricorda che il luogo ha muffe all’interno e vedremo adesso perché). Le sculture sono fatte con materiale gelatinoso e iperproteico, conosciuto con il nome di “brodo di coltura” che, colato negli stampi e raffreddato si indurisce e con il tempo si copre di uno strato di muffa. Quest’ultima si nutrirà delle sculture stesse e andrà quindi a consumarle piano piano. Questo significa che nel corso della Biennale (che terminerà a fine novembre), la loro forma muterà. Ed è proprio questo il senso dell’opera, quasi un inno alla ripetizione e al cambiamento della vita: nascita, composizione e decomposizione. Sono visibili anche il forno con cui l’artista fonde queste sculture e il “frigorifero”, impostato a -78°, che raffredda la materia.
Giorgio Andreotta Calò è un artista interessato agli spazi e crea un’installazione ambientale, gigantesca. Si chiama “La fine del mondo” (2017) e taglia l’ambiente in due livelli: quello inferiore che accoglie il visitatore, ossia un groviglio di tubi da ponteggio che sostengono una piattaforma di legno ed sembra evocare una chiesa a cinque navate e un ambiente superiore, inondato da una distesa d’acqua che corrisponde alla totalità dello spazio sotto, dove il soffitto del padiglione si riflette e ribalta. In questo modo si crea uno sfondato prospettico che non ha nulla da invidiare ai primi quadri di prospettiva del Quattrocento. L’ambiente risulta così silenzioso, ma nello stesso tempo cupo e drammatico. I due livelli sono poi messi in comunicazione grazie a delle sculture in bronzo bianco, messe su alcuni tubi di sostegno. Ricorre la tematica del doppio, molto presente nell’ideologia dell’artista.
Adelita Husni-Bey è italiana di origini libiche ed è la più giovane in questa Biennale (1985). La sua è un’arte pedagogica, gioca su forme di educazioni nuove e alternative. Il suo video si intitola “The reading/La seduta” (2017) ed è popolata da sculture, mani di silicone illuminate. Il video è stato girato a New York ed è il frutto di un laboratorio composto da ragazzi che devono discutere su due argomenti antitetici tra loro: il tecnico e l’irriducibile. Recupera questa idea dagli studi di Federico Campagna, uno degli interpreti più importanti dell’antropologo de Martino. Le tematiche dibattute hanno spaziato dall’ambiente, alla tecnologia e allo sfruttamento. Visualizzano gli argomenti tramite i tarocchi disegnati appositamente dall’artista per le proteste recenti della tribù nativo americana Lakota contro la costruzione di un oleodotto vicino la riserva indiana di Standing Rock. I ragazzi sono seduti intorno ad un tavolo e tramite la lettura dei tarocchi esprimono le loro idee sul mondo e sull’ambiente.
Come detto all’inizio, per motivi di spazio non mi è possibile continuare a parlare ulteriormente, ma tanto ci sarebbe ancora da dire. Bellissimi sono stati anche i padiglioni del Canada, della Corea, della Gran Bretagna… Chi di voi ci è andato? Quali sono stati i vostri padiglioni preferiti? Quelli che vi hanno colpito di più?