top of page
Emozione Arte

La street art e il writing al MACRO di Roma


Sono stata lo scorso weekend a visitare il MACRO di Roma e la mostra temporanea “Cross the streets” (sarà visibile fino al 1° ottobre). Proprio di questa vorrei parlare. Come dice il titolo, si vuole indagare l’arte di strada, l’arte che incrocia la nostra vita quotidiana, alla portata di tutti. Ma già dobbiamo fare una differenza: la street art è differente dall’arte del writing. La prima è nata come un movimento sovversivo, clandestino, perché fatto in luoghi dove non si potrebbe. Nel “writing” si identificano coloro che si dedicano alla stesura di sigle, i cosiddetti “tag”. Sono stati loro i primi ad imporsi sulla strada, già cinquant’anni fa. Iniziarono a lavorare sui muri di Philadelphia e New York, ripetendo ossessivamente la loro firma. Le loro “tele” erano principalmente (e lo sono ancora) i vagoni dei treni o le saracinesche dei negozi e quello che vogliono diffondere è il concetto, prima ancora della forma. I writer vogliono sottolineare il disagio, la street art cerca invece di ridurlo e punta a decorare le strade. I writers si riuniscono a formare le cosiddette “crew”, gruppi chiusi che agiscono in ombra. La street art al contrario si rivolge ad un ampio pubblico e sfrutta molto internet per farsi conoscere. Le prime forme di arte urbana si possono già rintracciare nell’Ottocento a Parigi, nelle prime metro. Venivano chiamate “affiches” ed erano dei semplici poster stampati ed incollati. Essendo quindi un’arte prevalentemente clandestina, dove regole non ce ne sono e che agisce quasi sempre nell’oscurità, non ha avuto un gran consenso da parte del pubblico. Soprattutto il writing viene considerata una forma di imbrattamento (e nella maggior parte dei casi è così), dove ogni elemento della “crew” sente il bisogno di imporsi sul territorio, inserendo ovunque la propria sigla, quasi come un marcamento del territorio.

Al MACRO si analizza lo sviluppo del writing nella città di Roma. Da quanto esiste? Quali sono state le prime forme apparse? Si prende in considerazione un periodo che va dal 1979 ad oggi e lo si divide in tre gruppi: i primi writing a Roma negli anni ’80, la scoperta dei treni e della metropolitana negli anni ’90 e il passaggio dalla strada alla galleria all’inizio del nuovo millennio (di cui discuteremo in maniera più ampia dopo). Interessante sapere che Roma è la città dove nel 1979 si tiene la prima mostra di graffiti organizzata in Europa (intitolata “Writers newyorkesi fuori i confini di Manhattan”) ed è anche la città dove il linguaggio del writing si è evoluto tanto da essere riconosciuto nel panorama artistico contemporaneo. Non essendo semplice portare l’arte di strada all’interno di un museo, si è voluto dare parola agli interventi “site specific”, quindi realizzati proprio nell’area museale e agli album preparatori dei futuri graffiti che dovevano poi essere realizzati su muro o sui vagoni dei treni. È bello vedere come anche in questo caso, c’è uno studio di fondo preliminare. Non è solo l’”arte” propriamente detta ad utilizzare questi mezzi di studio anticipato, anche per l’arte urbana esiste ed è un processo molto simile, nonostante a volte si faccia fatica a crederlo. Il writing, soprattutto in area americana, è sempre stato condannato e perseguitato, ormai è però un fenomeno globale, con proprie regole. Al MACRO sono esposte proprio alcune opere dei writers che avevano lavorato nella mostra del 1979 (alla Galleria la Medusa) e che si credevano disperse (come Napal, uno dei primi writer a Roma e fondatore delle crew LTA e KIDZ).


Arriviamo poi agli anni ’90 con la scoperta delle metro e dei treni. Era il 1992 quando le linee della metro A e B e il trenino che collega Roma a Ostia, vengono ricoperte di graffiti. Poi il fenomeno di estenderà a tutta la rete dei treni regionali della città. Roma è una delle realtà dove i treni delle metropolitane circolano con un’alta stratificazione di graffiti (nemmeno a New York ce ne sono così tanti). In mostra vediamo la “Yard”, il deposito dove vengono messi i treni e le metropolitane non usate o quelle che finiscono il loro lavoro giornaliero. L’installazione è stata pensata e realizzata da Jon e Koma insieme a Rebus. I writers devono infatti scavalcare recinzioni, passare in stretti cunicoli e non devono essere visti dai guardiani. È quindi una situazione di clandestinità. Inoltre devono studiare bene il modo di entrare, quindi ciò richiede un lungo lavoro preliminare. Ovviamente una volta che sono riusciti a passare e a lasciare la loro “impronta”, devono in qualche modo immortalarla, così che possano ricordarsi quello fatto prima che altri writers possano ridipingersi sopra: si servono della fotografia. In mostra si possono ammirare infatti foto in cui vengono documentate le azioni “illegali” dei writers all’interno delle metro e all’interno di stretti cunicoli.

Nella sezione della street art sono esposti lavori di alcuni degli street artist più famosi degli ultimi tempi. Oltre alcune foto di Keith Haring, vediamo opere di Obey, il cui vero nome è in realtà Frank Shepard Fairey. È stato fondatore della Obey Clothing. Nato nel 1970 in sud Carolina, si è diplomato nel 1992 alla Rhode Island School of Design. Inizia molto giovane a lavorare con la street art e si specializza nella stesura di loghi tramite stickers. Il suo intento è far riflettere le persone tramite gli adesivi che, apparentemente non hanno nessun senso, ma la gente comincia a farsi domande sul loro significato ed ecco che c’è una reazione. I suoi lavori sono prevalentemente politici. Ricordiamo la campagna anti-Bush e la locandina di sostegno ad Obama per la sua candidatura a presidente. In mostra vediamo il grande murales “Middle east mural” del 2009 e la serigrafia in alluminio intitolata “War by numbers” del 2007. Interessanti anche le opere di Ron English, ossia sculture in fibra di vetro che raffigurano personaggi conosciuti, come il pupazzo di McDonald o Charlie Brown dei Peanuts. Lo stile ricorda molto Jeff Koons. Conosciutissimo anche lo street artist francese “Invader” famoso per i suoi personaggi ripresi dal videogioco arcade “Space invaders” del 1978, realizzati con piastrelle colorate disposte a formare un mosaico.



Invader

A questo punto vorrei soffermarmi su un argomento quanto mai attuale. Può la street art diventare arte da museo? La street art ormai è considerata quasi alla stregua di arte da museo. Le Amministrazioni l’accettano, anzi vedono in loro un modo per “abbellire” le strade e i quartieri più degradati. Si creano iniziative “ad hoc”, pensate e studiate per rendere il lavoro dello street artist un qualcosa di vero e conclamato, quasi come era l’arte rinascimentale. Diventa una scelta politica di “riconquista” degli spazi, soprattutto periferici. Si pensa anche alla sua “salvaguardia” e alla sua tutela, essendo esposta ad ogni rischio esterno e soggetta a facile deterioramento. Da qui prende piede l’idea della nascita di musei che possano ospitare i murales dei più grandi street artist. Si entra però in un terreno vischioso, ricco di critiche e polemiche, sia positive che negative. L’idea di staccare i murales dal loro contesto originario era nata già nel dopoguerra. Si pensava che il distacco fosse l’unico strumento in grado di conservare le pitture murali dalla distruzione. L’idea non farebbe una piega, ma, come dice la parola, “street art” è un’arte da strada e per la strada. Staccarla dal suo contesto farebbe venire meno la sua valenza e il suo messaggio. Questa sorte l’ha subita uno degli street artist più famosi di tutti i tempi: Banksy. I suoi più grandi murales, realizzati in Palestina, Gran Bretagna e Stati Uniti, sono stati staccati, chiusi in casse lignee e portati lontano dal luogo che li aveva ospitati e per cui avevano senso stare lì. In alcuni casi si è pensato di coprire i murales con lastre di plexiglass, in modo da non proteggerli dal deterioramento. Voler trasformare la street art in un’arte da galleria o da museo, è quindi, secondo me, quanto mai fuori contesto. Creare un museo a cielo aperto, toglierebbe la possibilità a tutti di poter ammirare un murales. Anche l’idea del restauro e del mantenimento delle opere su muro, è contro le fondamenta del movimento. Il fatto che su di un murales se ne possano poi sovrapporre altri, fa parte del gioco. Non si può pensare di salvaguardare un’opera di street art, come si salvaguarda la “Gioconda” di Leonardo. Anche il loro deterioramento che sia per una sovrapposizione di altri murales o per cancellazione dovuta ad agenti atmosferici, deve essere accettata. Anzi è proprio qui la sua bellezza. D’accordo con questo pensiero è sicuramente lo street artist “Blu” che tempo fa decise di coprire molti dei suoi murales a Bologna per paura che potessero essere staccati dal muro e portati dentro un museo (come si stava pensando di fare). La sua è una chiara azione politica e provocatoria. Non sarebbe mai sceso a compromessi con l’amministrazione per far diventare la sua arte un arredo da museo. Ma in tutto questo discorso, c’è anche chi vede l’istituzionalizzazione della street art come un elemento positivo, perché in questo modo si pensa di mettere in sicurezza un’opera per conservarla nel tempo e renderla fruibile ai posteri (anche se a pagamento perché magari verrà conservata dentro una galleria). Nel 2013 sono accaduti due eventi totalmente opposti, che ci fanno capire come la questione non sia ancora risolta. A Roma la street artist Alice Pasquini viene chiamata dal sindaco per decorare l’ufficio per i rapporti con i cittadini. Nello stesso tempo, a Bologna, la stessa artista viene denunciata per imbrattamento. Accettare la street art come un’arte istituzionalizzata non è quindi ancora ben vista da tutti e forse non lo sarà mai totalmente.

In tutto questo discorso, voglio però dare un parere positivo a questa mostra allestita al MACRO. L’esposizione è stata realizzata sotto un punto di vista “pedagogico”, soprattutto la parte del writing. Anche la sezione della street art, è stata bene fatta perché non si proponeva di “vandalizzare” l’opera staccandola dal suo contesto, ma si è basata su lavori trasportabili o realizzati direttamente sul luogo.

Viene da domandarsi che direzione prenderà la streer art nei prossimi anni. Abbiamo visto in che modo la situazione sia cambiata e come probabilmente cambierà ancora. Forse vedremo i prossimi murales chiusi dentro teche di un museo, oppure ci sarà un’inversione di tendenza e la street art tornerà ad essere quell’arte pura di clandestinità e vandalismo.



83 visualizzazioni0 commenti
bottom of page