Sono stata proprio il weekend appena trascorso a Venezia per vedere la mostra dell’artista contemporaneo più quotato del momento, Damien Hirst: “Treasures from the wreck of the unbelievable”. Le sedi della mostra sono due: Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Inutile dire che la magnificenza e lo stupore sono le due parole che meglio caratterizzano la mostra. Hirst colpisce ancora, in grande stile.
L’idea dell’esposizione prende spunto dal ritrovamento nel 2008 di un grande relitto di una nave naufragata al largo della costa orientale dell’Africa. La scoperta fece tornare a galla una leggenda, quella del famoso Cif Amotan II, uno schiavo di Antiochia, che aveva vissuto tra la metà del I secolo e l’inizio del II d.C. La sua storia ci racconta che, dopo essere stato schiavo, Amotan riuscì ad accumulare una grande fortuna (nell’Impero romano infatti un ex schiavo aveva la possibilità di essere coinvolto in affari finanziari e poteva così arricchirsi). Grazie a questa fortuna collezionò oggetti leggendari e sontuosi che provenivano da gran parte del mondo. Deciderà poi di imbarcarli tutti su una grandissima nave, chiamata “Apistos” (incredibile), per poi custodirli dentro un tempio fatto costruire appositamente. Il viaggio in mare però incontrò delle difficoltà e la nave affondò nelle profondità degli abissi. Questa collezione è quindi rimasta celata per più di duemila anni. Il sito sarà scoperto solo nel 2008, vicino agli antichi porti commerciali dell’Azania.
Hirst decide così di esporre più di duecento sculture che, a suo dire, sarebbero state recuperate in mare con l’aiuto di esperti sub. In entrambe le sedi museali si possono vedere diversi video che testimoniano la “pesca” dei tesori antichi. Il tutto risulta strabiliante. Lo spettatore è confuso, non capisce cosa si trova di fronte e si chiede “È vero o no?”. Realtà e finzione sono in bilico. Di ogni scultura abbiamo l’esemplare ritrovato in mare, con annessi coralli, muschi e flora marina e l’esempio contemporaneo, ricostruito così come doveva essere all’origine. Lo stesso Hirst ha dichiarato di aver investito circa 50 milioni di sterline per realizzare la mostra.
La cosa che mi ha particolarmente colpito è stata la varietà delle culture e dei miti che si intrecciano. Dagli antichi egizi ai greci, fino ad arrivare alle culture indù. In tutto ciò spicca però anche la dissacrante ironia di Hirst. Come non si può ridere davanti le sculture ricoperte di muschio che raffigurano Topolino e Pippo? Per non parlare poi dell’orso Balù del “Libro della giungla”. Il culmine sono le statue che sembrano essere un suo autoritratto. Una di queste si trova a Punta della Dogana e con aria divertita tiene per mano Topolino. Come per dire “Ve l’ho fatta anche questa volta!”.
Tra tutte le opere esposte, la più sconcertante è sicuramente il gigante di Palazzo Grassi. Sistemato nell’atrio, è visibile appena si entra. La sua altezza è di poco più di diciotto metri ed è la copia di un bronzo molto più piccolo trovato nel relitto. Il suo ritrovamento sembrava aver risolto l’enigma di una testa saurina emersa nella valle del Tigri nel 1932. La bocca era aperta e gli occhi schizzavano quasi fuori. Fu identificata nella divinità babilonese Pazuzu (re dei demoni del vento). Però, dopo la scoperta della statua, l’identificazione è stata messa in dubbio perché mancano alcuni attributi tipici della divinità, come le ali e la coda da scorpione. Infatti gli dei mesopotamici incarnavano tratti umani, animali e divini. La coppa che regge con la mano destra, potrebbe essere stata usata per raccogliere il sangue umano. Ma non si esclude che la scultura potesse essere stata usata come una sorta di guardiano di qualche villa. Il gigante può essere visto da tutti e tre i piani di Palazzo Grassi e ad ogni altezza crea una visione diversa e uno spaesamento tutto nuovo. Sembra quasi che da un momento all’altro possa animarsi e uscire fuori.
Un’altra maestosa scultura la troviamo a Punta della Dogana. Sto parlando di “Hydra e Kali”. In questo caso entriamo nella cultura induista. La divinità viene descritta come feroce e battagliera. Qui è in lotta con il serpente a sette teste, simile all’Hydra greca, le cui teste di rigenerano ogni volta che vengono recise ed è uno dei più temibili avversari di Ercole. La donna è nuda e con le sue quattro braccia brandisce delle spade. Anche sulla sua treccia vediamo la bocca di un serpente.
Bellissime sono anche le diverse teste di Medusa che si trovano collocate in entrambe le sedi museali. Abbiamo la versione di malachite verde, quella dorata e la versione di vetro. Subito viene alla mente la Medusa di Caravaggio o quella di Bernini. La testa della Gorgone è a terra, pietrificata dal suo stesso sguardo (Perseo la fece specchiare nel suo scudo) e sulla sua testa si possono riconoscere quattordici tipi di serpenti tra i più velenosi al mondo (per citarne uno il pitone delle rocce africano).
Molti sono anche i richiami al mondo egizio (tanti i busti dei faraoni o le sfingi), ma non mancano anche quelli al mondo romano (Mercurio e Nettuno per esempio).
Poiché descrivere ogni singola opera sarebbe impossibile, ho voluto soffermarmi su quelle che più mi hanno colpito. Il mio consiglio è comunque quello di andare a visitare la mostra. Non sono tante le mostre che Hirst ha realizzato in Italia (anni fa ne allestì una a Napoli) e questa è sicuramente una bella occasione. Inoltre potrete anche ammirare i bellissimi affreschi dello scalone d’onore di Palazzo Grassi dipinti da Michelangelo Morlaiter Francesco Zanchi. Avete tempo fino al 3 dicembre. Al suo termine, tutte le sculture esposte saranno messe in vendita, così ha dichiarato Hirst.