Il problema delle copie dei dipinti ha cominciato ad affliggere il mercato dell’arte a partire dal Seicento, in modo anche molto insistente e incontrollato. Uno degli artisti che ne ha maggiormente risentito, è stato senza dubbio Caravaggio, soprattutto nella fase successiva la sua fuga da Roma per l’uccisione di Ranuccio Tommasoni e dopo la morte, avvenuta nel 1610. Per prima cosa dobbiamo distinguere tra “copie da collezionismo” e “copie da falsificazione”. Le prime erano realizzate con l’unico di scopo di esercitazione, fatte per ammirazione e apprezzamento dello stile del maestro. Le seconde invece nascevano con il principale fine della truffa. Venivano richieste per essere vendute ad acquirenti che, nella maggior parte dei casi, non erano al corrente dell’inganno, sia perché non conoscevano in maniera approfondita lo stile del maestro, sia perché alcuni falsificatori erano molto abili a camuffare lo stile del Merisi.
Fino a quando Caravaggio si trovava a Roma, nessuno si era mai permesso di copiare sue opere, altrimenti avrebbe fatto i conti con la sua rabbia. Conosciamo un episodio, raccontato dal Malvasia, che coinvolge anche il cardinale Del Monte (il cardinale francese presso il quale Caravaggio soggiornò lungamente a Roma). Proprio quando il Merisi entrò sotto la sua protezione, vide nella casa del suo protettore un dipinto con una caraffa di fiori che era spacciato per opera di un altro artista, quando invece si trattava di una sua opera (ricordiamo che Caravaggio dipingeva molta natura morta, fiori e frutta presso la bottega di Giuseppe Cesari e si dice realizzò anche questa caraffa di fiori che purtroppo non si è conservata). Per dimostrare la paternità dell’opera, non dipinse un’altra tela con lo stesso soggetto, ma disse al prelato che gli avrebbe mostrato altre opere già dipinte di qualità pari se non addirittura superiore al quadro incriminato. Secondo Luigi Spezzaferro, eminente critico del Merisi, il falsificatore era Mao Salini, che tra l’altro sarà coinvolto anche nel cosiddetto processo Baglione, qualche anno dopo (1603).
Una volta che Caravaggio lasciò Roma e si rifugiò nel Sud Italia facendo tappa a Napoli, Siracusa e anche l’isola di Malta, a Roma cominciarono a nascere le prime copie delle sue opere. I committenti Costa, Del Monte e Giustiniani, come anche i Mattei, richiesero copie dei suoi quadri. La sua fama stava infatti prendendo il sopravvento e tanti volevano possedere un quadro che ricalcasse il suo stile (se non era possibile avere un originale). Per fare degli esempi, il banchiere Costa fece realizzare una copia del “San Francesco in estasi”, di cui lui custodiva l’originale, per l’abate di Pinerolo Ruggero Tritonio. Sempre il Costa fece realizzare una copia del “San Giovanni Battista” (conservato a Kansas City, quello esposto alla mostra di Palazzo Reale a Milano qualche mese fa) per l’oratorio della chiesa di san Giovanni Battista di Conscente, che era tra l’altro la sua città d’origine. Il marchese Vincenzo Giustiniani fece invece realizzare tante copie del quadro “L’Incredulità di San Tommaso” (oggi a Postdam). La prima risale al 1606, in quanto abbiamo un documento che parla di una copia, vista da Bernardo Bisonzi, nella casa di Orazio Del Negro, che poi andrà a Giovanni Vincenzo Imperiale che era imparentato con i Del Negro. Un’altra copia sempre dell’”Incredulità di San Tommaso” era in possesso di Carlo de’ Medici, fratello del Gran Duca Cosimo II. È citata negli inventari dei Medici a partire dal 1666 e fino agli inizi del Novecento era ritenuta originale del Caravaggio. E questi sono solo alcuni degli esempi di copie che giravano per tutta Italia, sintomo che il soggetto dell’ ”Incredulità di San Tommaso” era stato uno dei più riusciti del maestro lombardo (si contano davvero tantissime copie seicentesche). Era considerata un’iconografia devozionale e quindi adatta ad essere donata a confraternite e ordini religiosi.
Sembra che il cardinale Del Monte possedesse una copia della prima versione del “San Matteo e l’angelo” che Caravaggio realizzò per la cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi (la sua prima commissione pubblica). L’originale di questa tavola, come molti di voi sapranno, è andata purtroppo distrutta durante la seconda guerra mondiale e ad oggi rimane solo (e oserei dire fortunatamente) una foto. Anche questa copia non è conservata quindi non possiamo sapere se magari, a pochi anni dalla sua realizzazione, la pala potesse avere delle differenze rispetto a quella che noi oggi conosciamo tramite fotografia (sul problema del rifiuto della prima versione, c’è chi, come Luigi Spezzaferro, non è particolarmente convinto. Vi rimando all’articolo che ho dedicato a questo argomento qualche tempo fa e che potete trovare nella sezione “Archivio Articoli”). Anche per quanto riguarda la “Medusa”, la cui versione originale si trova agli Uffizi e che era stata donata dal Del Monte a Ferdinando I di Medici, Granduca di Toscana, ci sono varie ipotesi. Esiste un’altra versione della “Medusa” che da alcuni viene considerata una prima versione, quasi uno studio preparatorio (sono emersi molti pentimenti da ascriversi secondo alcuni critici, agli studi effettuati dal Caravaggio), da altri invece è vista come una copia di qualche artista di cui non si conosce ad oggi il nome (vi rimando anche in questo caso all’articolo dedicato alla “Medusa” per ulteriori approfondimenti).
Ci sono poi quelle copie che vengono considerate del Merisi stesso. Vuoi perché venivano richieste dal committente come dono per un'altra persona, vuoi perché erano (forse) esercitazioni di bottega. È il caso del “Suonatore di liuto” di cui esistono due copie. Una conservata al Metropolitan di New York e l’altra all’Ermitage di San Pietroburgo. Quest’ultima è stata donata al marchese Vincenzo Giustiniani dal cardinale Del Monte. Anche se non conosciamo l’ordine cronologico con cui vennero realizzate le due tele, è chiaro che in questo caso si tratta di due quadri con lo stesso soggetto, ma con alcune varianti. È quindi una “copia” realizzata espressamente da un committente per diventare un dono e non una “copia da falsificazione”. Anche del “Ragazzo morso dal ramarro” ne esistono due versioni: una alla National Gallery di Londra e l’altra alla Fondazione Longhi a Firenze. Per quest’opera ci sono ancora tanti dubbi e tanti studi da fare, ma sembra che l’originale sia da vedersi nella tavola di Londra. Non sappiamo precisamente perché Caravaggio abbia realizzato due versioni dello stesso soggetto. Forse si trattava di mera esercitazione dato che si trattava di una delle sue primissime opere. Per finire vorrei parlare delle due versioni della “Buona Ventura”: una ai Musei Capitolini e l’altra al Louvre. Anche in questo caso sono due “copie” che presentano però delle varianti. Tra l’altro la versione francese si trovava a Roma fino alla metà del Seicento. Giulio Macini ci dice che era nelle collezioni di Alessandro Vittrice. Entrerà poi a far parte della famiglia Doria Pamphilj che la venderà a Luigi XIV quando Bernini si recherà a Parigi. Anche in questo caso ignoriamo il motivo che spinse Caravaggio a realizzare due copie (ed è da sottolineare come ne esistano altre ma queste due sono state considerate di mano di Caravaggio) e non sono da ascriversi come copie da falsificazione. Non tutti, ancora oggi, sono convinti che Caravaggio realizzasse più di un dipinto con lo stesso soggetto. Roberto Longhi non era d’accordo almeno fino al 1960, quando, nonostante rimanesse comunque fedele al suo assunto, riteneva che le copie servivano per far capire quali fossero stati i dipinti di possibili originali del Merisi scomparsi e non ancora trovati.