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L’arte si fa spettatore, lo spettatore si fa arte: Take me (I’m yours). La mostra a Villa Medici


Partita il 31 Maggio, fino a esaurimento opere. Una definizione temporale che potrebbe bastare in sé ad esprimere l’essenza di questa mostra, ospitata in una delle cornici più maestose di Roma: l’Accademia di Francia a Villa Medici. A cura di Christian Boltanski, Hans Ulrich Obrist, Chiara Parisi, Take me (I’m yours) si configura come una mostra collettiva e partecipativa, in continua evoluzione perché vive dello scambio e del contributo dello spettatore. A prenderne parte infatti, non sono solo i 15 pensionnaires che ogni anno vengono accolti negli ateliers della storica villa, ma anche altri artisti di fama internazionale e tassello più importante: il visitatore, il fruitore (e creatore?) finale.

A ben vedere dunque, il visitatore è molto di più dei suoi occhi, spesso asettici e distaccati nelle mostre più tradizionali a cui la Capitale ci abitua. È bocca con cui assaporare le caramelle posate all’ingresso, è dita con cui sfiorare un Ermafrodito realizzato a carboncino su una delle pareti, è braccia con cui accaparrarsi vestiti di ogni sorta, è estro con cui riesumare e dare nuova vita a cocci di ceramica.



Ideato e realizzato per la prima volta a Londra nel 1995 alla Serpentine Gallery, riproposto vent’anni dopo nella capitale francese (con riedizione a Copenaghen e a New York), presentato nel 2017 alla Biennale d’arte contemporanea dell’America del Sud e all’HangarBicocca di Milano, il format giunge infine a Roma in un luogo - e in un modo – unico, dedicando la mostra a Jef Geys, artista belga da poco scomparso e sostenitore di un’arte inclusiva e sovversiva.

L’edizione ospitata in quella che un tempo era la residenza estiva della famiglia fiorentina, adesso gioiello incastonato nel cuore di Roma, ha in sé un sapore di commistione, innovazione e fisiologica trasformazione. È infatti il visitatore a prendere parte alle opere ma sono anche gli artisti a integrarsi fra loro, l’arte e la storia a mischiarsi con lo spazio circostante, come il vecchio e il nuovo, il classico e il contemporaneo, la ricerca con la tradizione.

Quale migliore ospite di questa mostra così hors de la grille, se non un’antica residenza che ospita da più di 200 anni l’Accademia di Francia? Un tempo luogo di accoglienza di borsisti sottoposti a dura disciplina e rigore, incaricati di realizzare copie di opere antiche e rinascimentali da portare in Francia, l’Accademia accoglie ora in residenza artisti e ricercatori di varie discipline (fotografi, architetti, artisti, storici dell’arte, compositori) per consentire loro di portare avanti i propri progetti di ricerca per la durata di un anno.

È proprio in questa logica di raccordo e unione poliedrica (che non è sfera che annulla e omologa le diversità, ma unione nelle diverse facce – come ama dire Papa Francesco) che la Villa e l’Accademia diventano quindi gli albergatori esemplari e cuciti su misura, adattandosi e lasciandosi scoprire da artisti e visitatori nello splendido giardino antistante la facciata, come nei meandri dimenticati della vecchia casa di Onorio, abitati ancor prima dell’arrivo dei Medici.

Ha ragione allora Gaber: la vera libertà è partecipazione. Liberi da preconcetti, vecchi scheletri teorici, antiche abitudini, abbandonatevi quindi alla mostra che prende, raccoglie, trasforma, dà.


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