Che si capiti in Via Nazionale per puro caso o che ci si vada di proposito, che si legga velocemente una “i” in mezzo a quel “fotografe” e si entri convinti di vedere una mostra dedicata a scatti puramente italiani, che si ami o meno la fotografia, che se ne colga o meno la mano femminile dietro le lenti del tempo, questa mostra estiva nello storico Palazzo delle Esposizioni vi farà venir voglia di soffermarvi. Soffermarvi un attimo ad osservare, approfondire e toccare tempi, persone, situazioni che ci sfiorano tutti i giorni, che ci appartengono nella memoria o nelle radici ma che per qualche motivo spesso ci risultano torbidi o distanti, se non fosse per lei: la macchina fotografica, vera protagonista al femminile di questa mostra.
La mostra, aperta al pubblico fino al 2 settembre, è infatti una selezione di oltre 200 fotografie della Collezione Donata Pizzi: momenti e frammenti catturati da circa 70 autrici di diversa generazione e provenienza, a raccontare una storia di donne osservatrici e scrupolose, soggetti attivi della vita politica, delle rivolte, dei cambiamenti estetici, concettuali, tecnologici, emotivi degli ultimi 50 anni di storia.
La donna emerge quindi come soggetto promotore, come “altro sguardo” di esplorazione, interpretazione e critica della realtà circostante, la quale diventa oggetto variegato e di complessa investigazione. A tale scopo la mostra è quindi pensata e suddivisa in 4 sezioni: Dentro le storie (reportage e denuncia sociale); Cosa ne pensi tu del femminismo? (il pensiero femminista e il racconto fotografico); Identità e relazione (alla scoperta della dimensione affettiva da conciliare con la fermezza identitaria); Vedere oltre (ricerche e potenzialità inespresse).
Se una sala espone quindi fatti di cronaca, attuali o stampati nella memoria collettiva (tra i più significativi l’omicidio Mattarella a Palermo a cura di Letizia Battaglia), nell’altra si passa a storie di emancipazione femminile più o meno riuscite. Casalinghe degli anni ’60, ritratte da un occhio che rimane in bilico tra l’ammirazione per la dedizione al lavoro e la rabbia per tutte le capacità celate o mai sondate, diventano improvvisamente specchio dei collettivi femministi immortalati una ventina d’anni dopo all’Ospedale San Giacomo durante l’occupazione nei reparti d’interruzione gravidanza.
Ancora in un flusso di immagini, che scorrono come se fossero pensieri: storie di alfabetizzazione femminile in Angola e manicomi Istriani nei loro ultimi anni di attività a ritrarre volti disincantati, sospesi nel tempo. Poi nuovamente immagini casalinghe, in una Genova che questa volta racconta l’intimità di travestiti che si preparano per una festa, in un reportage che ne denota una tenerezza profonda e inedita, a scardinare quell’immagine di esagerazione ed esuberanza che da sempre li aveva visti vittima di emarginazione sociale.
È proprio in quest’articolazione, storica e concettuale, ma con una linea di raccordo comune, che si delinea dunque la cifra unica di racconto di queste fotografe-ie. Molto oltre i confini stretti e -talvolta melensi- che può rischiare di assumere il femminismo, questa mostra racconta quindi le donne che raccontano. Da oggetto a soggetto, in una storia di emancipazione che in fondo è andata di pari passo con la storia della fotografia, che si è sempre alimentata di donne, ma che sopravvive e si sviluppa senza una necessaria distinzione di genere.
Perché queste donne, dalle prime pionieristiche “romanziere di vita” alle ultime innovatrici affamate di rivoluzionarie sperimentazioni, hanno semplicemente usato le loro lenti per com’erano alla ricerca di un’unica direttrice comune: la verità. “Vedo quello che c'è, non metto quello che penso io sulle persone” dice in modo schietto e disadorno Lisetta Carmi. Un’ottica genuina e singolare che -forse inconsapevolmente- non può che renderci tutti partecipi.