“Pollock e la Scuola di New York”, mostra in corso al Vittoriano di Roma, è una vera delizia per il gli occhi e per il cuore. Quelle pennellate astratte, gestuali, ricche di potenza espressiva, suscitano in chi le guarda delle grandi emozioni. Sono cinquanta i capolavori esposti in mostra, un’accurata selezione dal Whitney Museum of American Art di New York. Ma partiamo dall’inizio. Che cos’era la Scuola di New York e chi erano i loro membri? Ci troviamo negli anni Quaranta del Novecento, un gruppo di artisti, quasi tutti provenienti dall’Europa (a parte Pollock e Kline), si riunisce nella galleria fondata da Peggy Guggenheim: “L’arte di questo secolo”. La sua innovazione e rottura con il mondo di allora era già evidente nell’allestimento della galleria stessa: le pareti non erano dritte, come di consuetudine, ma oblique. Il modo di lavorare di questi artisti era totalmente diverso dall’arte tradizionale. Si allontanarono totalmente dal realismo e dalla figurazione per avvicinarsi all’astratto, visto come nuovo spirito del momento. La loro era una vera e propria rottura con tutto quello che era stato prima, una voglia immensa di cambiare il mondo dell’arte. Divennero famosi con il termine di gruppo della “Scuola di New York” (città dove lavorarono) o “espressionisti astratti”. Il termine dispregiativo di “Irascibili” nacque in seguito ad una protesta fatta contro il Metropolitan Museum of Art nel 1950, in quanto aveva deciso di non includerli in una mostra di pittura contemporanea americana, ritenendoli inadeguati. Inviarono una lettera di protesta proprio al direttore del museo del MET che sarà poi pubblicata anche sul “New York Times”. Il termine “Irascibili” sarà coniato da Herald Tribune che lo riprese dalla rivista “Life”. L’accezione era fortemente negativa. Irascibili era un termine usato non solo per indicare il loro sdegno nei confronti dell’esclusione dalla società a cui erano stati sottoposti, ma anche per indicare un gruppo di “ribelli” che non voleva attenersi alle regole dell’arte tradizionale e voleva rompere drasticamente con il passato senza possibilità di ritorno.
Al Vittoriano di Roma è possibile ammirare capolavori di gran parte di questi artisti. Cerchiamo di analizzarne alcuni. Pollock è il primo che incontriamo nel nostro percorso. È americano, nato a Cody, Wyoming, nel 1912. La sua giovinezza non fu semplice a causa dei continui spostamenti a cui lo sottoponeva la famiglia: dalla California, all‘Arizona, fino al trasferimento a New York, dove incontrerà il successo. Il suo carattere è sempre stato ribelle, sia in famiglia che a scuola, da cui fu espulso ben due volte. Beveva molto, fin dall’adolescenza e questo lo portò a soffrire presto di alcolismo. Solo la pittura lo faceva stare bene, solo con lei si sentiva sereno. Pollock era molto legato a Picasso, che considerava il suo maestro, la sua musa ispiratrice, ma aveva anche dei forti legami con l’arte dei nativi americani e con il muralismo messicano. Conobbe infatti José Clemente Orozco e Siqueiros, da cui riprese l’utilizzo delle tele giganti. Importante è l’incontro con Lenore Krasner, che nel 1946 divenne sua moglie. Anche lei era pittrice, ma dovette cambiare il suo nome in Lee per le discriminazioni che ancora esistevano nei confronti delle donne pittrici. L’inizio della sua carriera artistica è ancora legata alla figurazione, benché sia già orientata verso l’astrazione. In mostra abbiamo due piccole tele che testimoniano il suo legame iniziale con la figurazione. Entrambe non hanno titolo (“Untitled”) e sono state realizzate nella metà degli anni Trenta, prima di legarsi al movimento dell’espressionismo astratto. Non è facile capire che cosa Pollock volesse rappresentare, ma chiari sono i riferimenti a figure allungate, quasi avvolte in dei vortici di colore. La tecnica usata è pastello a cera e grafite su semplice carta. Si continua poi con piccoli ma intensi lavori legati alla fase dell’espressionismo astratto. Molto bella è una tela intitolata “Number 17 – Fireworks” (Numero 17 – Fuochi d’artificio) del 1950, dove, su uno sfondo completamente nero, vediamo aggrovigliarsi fili di colore sparso, pieni di quella carica frizzante e giocosa propria dei fuochi d’artificio. Il pezzo più importante in mostra è però “Number 27” (Numero 27) sempre del 1950. Qui la tela è molto grande e orizzontale. Grovigli di colore si attorcigliano tra loro, senza sosta, senza un senso logico preciso, ma ricchi di quella carica emotiva tipica dei lavori di Pollock. E qui entra in gioco la tecnica del “dripping” o anche detta dell’ “action painting” per cui è famoso il nostro Pollock. Sarà l’unico di tutto il gruppo della “Scuola di New York” a lavorare con la tela adagiata a terra, su cui, tra l’altro, era solito anche camminare sopra. Per mezzo di pennelli essiccati e duri faceva sgocciolare il colore direttamente sulla tela, che ormai ripudiava il tradizionale cavalletto. È importante però sottolineare una cosa importante: la tecnica del “dripping”, che etimologicamente vuol dire proprio “gocciolamento”, fu sperimentata da Max Ernst nel 1943, usando un barattolo di vernice bucato sul fondo e appeso con una corda al soffitto, da cui fuoriusciva il colore che colava su un foglio o una tela sottostante.
Il percorso continua con lavori di Arshile Gorky, di origine armena, il più “sfortunato” del gruppo oserei dire. Scappato dalla terra natale a causa del genocidio a cui era stato sottoposto il suo popolo, arrivò a New York con il fratello, dove intraprese la sua carriera artistica. Vessato da numerose morti in famiglia e memore della tragica storia dell’Armenia, la sua arte è piena di drammaticità e tristezza. Si sposerà e avrà due figlie. Purtroppo però la sua condizione psichica peggiorava sempre di più, tanto da portarlo al suicidio (si impiccò su un albero in un bosco vicino casa). In mostra abbiamo “The Betrothal, II” (Il fidanzamento II) del 1947. Gorky è stato forse l’unico del gruppo a rimanere più legato ad una sorta di figurazione. In questo lavoro, nonostante le figure non siano chiaramente riconoscibili, possiamo intravedere due personaggi: uno più allungato e sottile e l’altro più spesso e largo, con una grande bocca nera che sembra gridare più per disperazione che per felicità. Questo è Gorky. Nelle sue opere emerge sempre della negatività mista a disperazione, a dispetto dei titoli apparentemente felici.
Interessante anche il lavoro di William Baziotes, di origine greca, ma cresciuto in Pennsylvania. Il suo lavoro è tutto basato sullo studio del sogno e dell’inconscio. Sembra molto vicino ai lavori del surrealista Yves Tanguy. Si può ammirare “The beach” (La spiaggia) del 1955. L’atmosfera è chiaramente onirica. Vediamo una cresta bianca, simile alle onde che si infrangono sulla spiaggia, personificata dallo sfondo beige che gira tutto attorno. Un ovale bianco potrebbe rappresentare il sole, dalle cui estremità si dipartono delle piccole e sottili linee bianche, simili a dei raggi.
Una sezione tutta sua è per Franz Kline, nato (nel 1910) e cresciuto in Pennsylvania. Molto importante è stata la frequentazione della “Heatherly’s Art School” a Londra. Sarà poi negli anni Quaranta che si avvicinerà all’espressionismo astratto e entrerà a far parte del gruppo della “Scuola di New York”. I suoi lavori sono molto grandi. Lavorava su ampie tele, stendendo lunghe strisce di colore (inizialmente usava solo il bianco e il nero) che si intersecavano tra loro in modo netto, sia orizzontale, verticale che obliquo. Al contrario di Pollock che lavorava di getto, senza uno studio preparatorio, Kline realizzava dei bozzetti, che poi trasferiva sulla tela. Nonostante la sua arte sia legata all’espressionismo astratto, nelle sue linee così rigide e forti, è possibile riconoscere grattacieli, ponti e strade tipiche di New York. I colori da lui preferiti erano il bianco e il nero, suoi marchi di fabbrica. Nel 1959 però decise di introdurre anche il colore, provocando l’indignazione del suo agente d’arte che riteneva fosse un azzardo cambiare stile, poiché ormai tutti amavano le sue linee essenziali bianche e nere. Interessante notare un particolare nei suoi lavori: le linee che tracciava sulle tele, fuoriuscivano dalle stesse, arrivando anche sui bordi laterali. Era un chiaro segno innovativo. La tela non doveva più essere racchiusa dalla cornice che, ormai, era totalmente scomparsa. Il concetto è vicino alle idee di Fontana, che era solito bucare la tela per andare oltre la bidimensionalità.
All’interno della “Scuola di New York” non abbiamo solo gestualità e vigore, ma anche colore e smaterializzazione. È quello che viene chiamato con il termine di “Color Field”, che porterà poi, dopo la morte di Pollock nel 1956, alla nascita di movimenti come la “Minimal Art” e la “Pop Art”. Il secondo piano della mostra è dedicata proprio ad artisti che si dedicarono a questa sfaccettatura dell’espressionismo astratto. Un esempio è sicuramente Ad Reinhardt, figlio di immigrati russi e artista attivo nei movimenti di sinistra. La sua fase iniziale è abbastanza accademica e tradizionale, per poi sfociare negli anni Quaranta nell’uso della monocromia, anticipatrice del minimal ( corrente che successivamente abbraccerà totalmente) e con conseguente uso delle figure geometriche. In mostra si può ammirare “Abstract Painting, Red” (Quadro astratto, rosso) del 1952. L’opera è composta da due piccole tele, su cui l’artista ha disegnato piccoli quadrati dai tenui colori colori come il rosa, il rosso e l’arancione.
Anche Willem De Kooning ha una sezione tutta sua ed è ricordato maggiormente per le sue tele dedicate alle donne. È di origine olandese, di Rotterdam, nato nel 1904. Proprio qui si laurea all’Accademia di Belle Arti. Dopo due tappe a Bruxelles e ad Anversa, nel 1926 sbarca a New York, avvicinandosi all’espressionismo astratto. Il suo stile, fatto da ampie e concitate pennellate è molto vicino a quello di van Gogh, suo padre putativo. La serie più famosa è quella dedicata alle donne e non a caso intitolata “Woman I” (Donna I) che espose alla galleria Sydney Janis Gallery, sempre a New York. In esposizione abbiamo “Woman Accabonac” (Donna Accabonac) del 1966. La figura femminile è facilmente riconoscibile: si vede il volto con i capelli, il seno, le lunghe gambe. In basso a sinistra la firma dell’artista.
Non possiamo che finire in bellezza. Mark Rothko è l’ultimo artista che incontriamo nel nostro percorso. Le sue opere sono pura poesia. Grandi campiture di colore dai toni tenui, si stendono sulle ampie tele e sembrano rappresentare albe o tramonti. Rothko era nato in Lettonia nel 1903. Nel 1913 si trasferisce in America per ricongiungersi con i fratelli e il padre che si erano trasferiti nel Nuovo Continente un anno prima. La sua arte è contemplativa, immersiva e si potrebbe azzardare onirica. I suoi lavori inducono alla meditazione e allo svelamento di se stessi. Morirà suicida nel 1970, in quanto affetto da una grave crisi depressiva che lo portò a credersi malato pur non essendolo.
Vorrei a questo punto spendere due parole su alcune artiste donne presenti in mostra. Nonostante sconosciute al grande pubblico, perché spesso taciute, l’espressionismo astratto è stato abbracciato anche da artiste donne. La prima è stata la moglie di Pollock, Lenore Krasner, costretta a cambiare il suo nome in Lee. Al Vittoriano è esposto un suo lavoro, “Untitled” (Senza titolo) del 1947. È una piccola tela di lino lavorata con olio e smalto. Lo stile è vicinissimo a quello del marito. Un piccolo “dripping” che è un’esplosione di colore. Piccole linee bianche, nere, blu e gialle si intersecano in modo talmente fitto da non lasciare nemmeno un piccolo spiraglio alla tela vergine. È presente anche un’altra artista donna: Helen Frankenthaler che vi invito però a scoprire personalmente in mostra.
In conclusione non si può che essere più che soddisfatti. Per la prima volta artisti americani così importanti hanno viaggiato oltre oceano per farsi ammirare in una mostra interamente dedicata a loro. Anche l’allestimento è stato ben studiato. L’illuminazione perfetta e l’inserimento di video dove si poteva studiare il modo di lavorare degli artisti, ha condito il tutto.
Sarà possibile visitare la mostra fino al 24 febbraio 2019. I prezzi dei biglietti sono i seguenti:
-15€ intero
-13€ ridotto (dagli 11 ai 18 anni e over 65)
-7€ ridotto universitari tutti i martedì non festivi
-7€ ridotto bambini dai 4 agli 11 anni