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Mostra "Artemisia Gentileschi e il suo tempo" a Palazzo Braschi a Roma

Il 30 novembre 2016 è stata inaugurata la mostra “Artemisia Gentileschi e il suo tempo” a Palazzo Braschi a Roma. Il Palazzo si trova tra Piazza Navona e Corso Vittorio Emanuele II e venne progettato dall’architetto Cosimo Morelli per volere del Papa Pio VI che voleva donarlo al nipote Luigi Braschi Onesti.

La mostra è stata allestita al primo piano del palazzo, suddivisa in sezioni corrispondenti alle diverse fasi della vita della pittrice. Si prendono però in considerazione non solo le sue opere, ma anche quelle dei suoi contemporanei per confrontare gli stili e le influenze.

Entrando nella prima sala, vediamo subito un autoritratto di Artemisia, nata a Roma nel 1593. La pittrice è ritratta mentre suona un liuto e lo sguardo vira verso noi spettatori. L’uso degli strumenti musicali da parte della pittrice, ma anche di altri artisti presenti in mostra come Antiveduto Gramatica, dimostrano un grande interesse per questo genere. E non è un caso che in questi stessi anni operi Caravaggio, che nel periodo finale del Cinquecento, lavora presso il cardinale Del Monte. Proprio per lui realizza una serie di quadri che hanno come soggetto strumenti musicali e cantori, ampiamente rappresentati in ogni particolare. Sappiamo che il Del Monte aveva una grande passione per la musica e si circondava di suonatori di liuto e cantanti che Caravaggio aveva sicuramente conosciuto. Con ogni probabilità, Artemisia vide Caravaggio che prendeva in prestito strumenti dalla bottega di Orazio Gentileschi (il padre di Artemisia). Orazio fu infatti coinvolto nelle accuse di diffamazione fatte a Caravaggio da Giovanni Baglione.

Ma Artemisia è conosciuta e ricordata per un fatto spiacevole che ha colpito la sua vita: lo stupro ad opera di Agostino Tassi. L’uomo in questione era un amico del padre e maestro di prospettiva e disegno della figlia. La sua relazione con Artemisia però non si fermò solo ad un rapporto lavorativo, maestro-allieva, ma arrivò ad esiti spiacevoli. Era il maggio 1611 quando avvenne lo stupro, consumato proprio nella casa della ragazza in via della Croce a Roma. Seguì un processo molto lungo, che, alla fine, portò alla vittoria la giovane Artemisia. Sappiamo che il padre, per impietosire il giudice, falsificò l’età della figlia al momento della stupro, diminuendola. Questo è stato sicuramente una grande vittoria per la pittrice, ma soprattutto per tutte le donne che, in un periodo come questo, non godevano sicuramente di favori. Il processo era stato vinto sulla base della “deflorazione” di una donna vergine dietro promessa di matrimonio non mantenuta. Agostino Tassi venne condannato ad allontanarsi da Roma per alcuni anni. Dell’anno seguente è un quadro che richiama sicuramente la violenza subita. L’opera in questione (esposta in mostra) è “Giuditta che decapita Oloferne” (1612-1613). Di questo soggetto Artemisia realizzò altri quadri, ma qui vediamo tutta la sua vendetta. Giuditta aiutata da un’ancella, conficca con forza la spada nel collo di Oloferne, ubriaco e disteso sul letto. Non c’è bisogno di dirlo, ma il quadro richiama con forte evidenza la “Giuditta e Oloferne” di Caravaggio che dipinse circa dieci anni prima. Sicuramente la pittrice lo vide e ne prese ispirazione. Sempre di questo periodo romano è un altro bellissimo quadro, esposto nella seconda sala della mostra: “Susanna e i vecchioni” (1610). La vicenda è narrata negli apocrifi dell’antico testamento e si svolge a Babilonia. Susanna era moglie di un ebreo ricco, ma era desiderata da due anziani della comunità che volevano sedurla. Mentre faceva il bagno nel giardino di casa, i due uomini la sorpresero di spalle e la minacciarono. Se non si fosse concessa, avrebbero detto di averla colta in flagrante adulterio con un giovane. La scena rappresentata da Artemisia è proprio questa. La donna cerca di svincolarsi con lo sguardo dai due vecchi che la guardano da dietro un altare classicheggiante. Si pensa che uno dei due uomini, quello con i capelli neri, sia proprio Agostino Tassi. Il quadro sembra testimoniare le iniziali avance del suo maestro.

Subito dopo lo stupro, seguì un matrimonio di convenienza che il padre si sbrigò a far celebrare per non mettere in cattiva la luce la figlia dopo il fatto accaduto. Si sposò con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore e con lui si trasferì a Firenze. Nella città fiorentina venne accetta nell’”Accademia delle Arti e del Disegno”, un avvenimento molto importante per una donna. Per distaccarsi ancora di più dal suo passato romano, Artemisia prese il cognome Lomi, che era in realtà quello vero del padre, il quale però aveva voluto assumere quello materno (Gentileschi) per distinguersi dal fratello Aurelio, anche lui pittore.

Qui a Firenze realizzò un altro quadro con soggetto “Giuditta e Oloferne” (Palazzo Pitti) e in questo caso la scena dell’omicidio è già svolta. Giuditta infatti ha in mano la spada e la sua fedele ancella porta la testa di Oloferne già decapitata dentro una cesta. Nella città fiorentina la pittrice godette di un certo successo e le commissioni non mancarono.

Intorno al 1621 tornò a Roma con il marito e la figlia avuta da lui. Poi nel 1627 nacque la seconda figlia naturale. Cercò di avviare entrambe alla carriera pittorica, con scarso successo. Pare che questo sia stato un periodo di magra per Artemisia che non ebbe molte commissioni. Probabilmente ancora giravano voci sul suo stupro ed inoltre era conosciuta per essere esperta di ritratti e di scene mitologiche, che sono proprio i suoi soggetti preferiti. Non era vista come un’artista poliedrica a cui richiedere soggetti diversi.

Nel 1630 si recò a Napoli e qui l’influenza di Annibale Carracci (che era passato per la città napoletana) e il Domenichino qualche tempo dopo, ebbero grande importanza per la pittrice. Questo fu il suo periodo più fiorente ed ebbe buoni rapporti con il Duca d’Alcalà. Proprio a Napoli ricevette la prima commissione per una chiesa: la cattedrale di Pozzuoli. Dipinse un “San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli”, l’”Adorazione dei Magi” e “Santi Proclo e Nicea”. Esposti in mostra, di questo periodo abbiamo “La morte di Cleopatra” (1630-35 circa) e “Corisca e il satiro” (1635-37 circa). Nel 1638 Artemisia si recò dal padre a Londra alla corte di Carlo I, dove Orazio era diventato pittore. Anche Artemisia lavorò per Carlo I, soprattutto dopo la morte improvvisa del padre nel 1639. Alla sua corte era presente un quadro della pittrice: “Autoritratto in veste di Pittura”. Nel 1642 a causa delle prime avvisaglie di guerra civile, Artemisia tornò a Napoli, dove è documentata nel 1649. Morì nel 1653. Una delle ultime opere ascrivibili a questo secondo periodo napoletano ed esposta in mostra è “Susanna e i vecchioni” (1649) oggi a Brno. Un soggetto che già avevamo visto e che qui è più maturo. La donna in questo caso non si discosta dagli sguardi viscidi degli anziani, ma guarda verso il cielo, consapevole di una clemenza divina.

A contornare i suoi capolavori sono stati esposti artisti come Giovanni Baglione che rappresenta “Erode, Erodiade e la testa del Battista” (1615-20). Baglione è conosciuto anche per essere stato uno dei maggiori antagonisti di Caravaggio. Contro di lui avrebbe fatto nascere un processo per diffamazione e dopo divenne uno dei suoi maggiori biografi. Antiveduto Gramatica è un altro pittore presente in mostra con “La morte di Cleopatra” (1610) e non può mancare Orazio Gentileschi con “David e la testa di Golia” (1610-12). Per finire cito due quadri molti belli di Francesco Furini “Santa Caterina d’Alessandria” (1623) che vede la donna indossare una scollatura molto pronunciata, non consona, se così si può dire, ad una santa e “David uccide il Golia”.

Nel complesso il mio giudizio è positivo. Mostra ben fatta, curata in ogni sua sezione (gestita ognuna da un curatore diverso). Non ho però condiviso la decisione di non far fotografare le opere neanche senza il flash. Sembra che sia stata una precisa richiesta da parte dei musei e collezioni private che hanno prestato le opere. Per sopperire a questo “inconveniente” sono stati allestiti dei pannelli con la locandina della mostra, dove si potevano fare le foto e pubblicarle sui vari social correlate di “hastag”. L’esposizione sarà visibile fino al 7 maggio 2017.

Federica Pagliarini

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