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Klimt: estasi d'oro

Gustav Kilmt è nato il 14 luglio 1862 a Baumgarten a Vienna. Era il secondo di sette fratelli, il padre era un orafo e la madre grande amante della musica lirica, anche se, per poter portare avanti la famiglia, dovette abbandonare la sua passione e lavorare come donna delle pulizie. Fin da piccolo si rivelò la sua inclinazione per l’arte, insieme ai due fratelli Ernst e George. Ernst sarà il fratello più amato e quando morirà di pericardite improvvisa, lasciando la moglie e una figlia, Gustav entrerà in una fase depressiva molto acuta. Nello stesso periodo morirà anche il padre, per un colpo apoplettico e questo porterà ancora più sconforto nell’animo del pittore.

Klimt fondò nel 1897 il gruppo della “Secessione viennese” creando anche una rivista “Ver Sacrum”. Il gruppo si proponeva di andare oltre l’arte puramente accademica, mettendo in risalto anche l’architettura, il design e le arti plastiche. Il loro simbolo era la “Pallade Atena”.

Molto importante e forse il più conosciuto, è stato il suo periodo aureo. L’interesse per l’oro non nacque per caso. Come abbiamo detto, il padre era un orafo e Gustav vide e a volte aiutò il padre nella creazione dei gioielli. Inoltre, insieme al fratello Ernst, visitò Ravenna e come non innamorarsi dei bellissimi mosaici della chiesa di San Vitale, del Battistero degli ariani e della Basilica di Santa Apollinare in Classe?

Il primo quadro di questo periodo aureo, è stato senza dubbio “Giuditta I” del 1901. Sappiamo che Klimt usava far posare delle modelle per realizzare i suoi quadri. Ecco le parole di Edgarda Ferri nel suo libro “Klimt. Le donne, l’arte, gli amori”:

“Avvolto in una tunica di cotone azzurro indaco, i piedi nudi, come presumibilmente anche il resto del corpo, Klimt riceveva le modelle a pagamento e le signore dell’alta società che posavano per lui per il solo piacere di offrirgli i loro corpi svelati. […]”

Il rapporto tra artista e modella era molto complice. Klimt decideva come la donna doveva posare, quali movenze assumere e quali espressioni fare per la migliore riuscita dell’opera. La maggior parte delle volte le faceva svestire e indossavano poi abiti scelti appositamente.

Il tema della Giuditta e Oloferne non è certamente nuovo. Come non ricordare Caravaggio, già moderno alla fine del Cinquecento con le sue luci scenografiche e Artemisia Gentileschi? Klimt però innova ulteriormente con una profusione di oro che non ha precedenti nella storia dell’arte, se non per l’arte del tardo gotico o gotico internazionale della fine del Trecento, dove l’uso della foglia d’oro era d’obbligo. Un’altra innovazione è evidente nell’espressione della donna. Non indica solo fierezza, ma soprattutto sensualità. Sembra incarnare il simbolo di “femme fatale”, di esasperazione dell’eros, al margine tra amore e morte.

Fu Anna von Mildenburg a fare da modella per il quadro e si prestava molto bene al soggetto, con la sua bocca crudele e lo sguardo tenebroso. Si fece spogliare e vestire da Klimt, indossò un collare dorato molto sontuoso, che sembrava quasi tagliarle la testa, un rispecchiamento, forse, del gesto compiuto da Giuditta.

L’impianto dell’opera è rigidamente verticale, si nota la netta differenza tra la tridimensionalità della carne del corpo e la bidimensionalità della veste, trattata proprio con uno spiccato decorativismo trecentesco. Il momento rappresentato è quello appena successivo la decapitazione del generale assiro Oloferne. Giuditta ha la sua testa in mano, la tiene per i capelli. Se ne vede però solo una parte, metà del volto. A chi vorrebbe vedere un autoritratto dell’artista, un po’ come aveva fatto Caravaggio con il suo “David e Golia”, si sbaglierebbe. E’ Klimt stesso a spiegare il perché non vuole ritrarsi:

“La mia persona come soggetto di un quadro non m’interessa. Credo che in me non ci sia niente di particolare da vedere. Non sarà una gran perdita: chi vuole sapere qualcosa di me come artista, che è l’unica cosa che valga la pena di conoscere, deve guardare attentamente i miei quadri. Solo così potrà capire chi sono e cosa voglio”. (dal libro di Edgarda Ferri “Klimt. Le donne, l’arte, gli amori”)

Lo sfondo dell’eroina biblica vede rappresentati alberi, montagne e palme colme di frutti. Un paesaggio ispirato dal “Rilievo di Lachisch” ritrovato circa cinquant’anni prima negli scavi di Ninive.

La cornice del quadro, in rame sbalzato, fu realizzata dal fratello Georg, scultore e cesellatore, arte che apprese dal padre.


Chiuderà il suo periodo aureo, la seconda versione di “Giuditta”, del 1909. Anche in questo caso il formato è spiccatamente verticale, molto di più della prima versione; sembra quasi una stampa giapponese. La donna non è più rappresentata fino alla vita, ma la sua figura continua quasi fino ai piedi. Tiene in mano sempre la testa di Oloferne e stavolta non volge lo sguardo verso l’osservatore, ma è girata di tre quarti. Le linee sinuose che l’avvolgono sono tipiche dell’”Art Noveau”, a cui Klimt si ispirò molto. Anche in questo caso la donna incarna la “femme fatale”, dall’aspetto anche un po’ tetro, quasi come un avvoltoio che avventa con i suoi artigli la preda, che in questo caso è la testa di Oloferne. Il movimento incessante è quasi elemento preponderante dell’opera. Il quadro venne acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna ed esposto nella sede di Ca’ Pesaro.


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